Senza paura, ma con dolore Pubblicato il 5 Gennaio, 2017

Un insegnamento per ogni Ebreo, durante tutto il tempo dell’esilio. Da un lato, non c’è da temere e da avere paura dell’esilio. Se D-O ci ha mandato in esilio, certamente ci ha dato anche le forze necessarie per superare le sue prove ed i suoi ostacoli e proprio grazie a ciò il popolo d’Israele raggiungerà la sua massima completezza e grandezza. Ma allo stesso tempo, noi dobbiamo sentire dolore per la nostra condizione d’esilio. D-O non voglia che l’Ebreo si senta comodo e tranquillo in esilio, ma deve gridare e pretendere: “Fino a quando!”.

Beer Sheva Goshen“Non temere di scendere in Egitto” (Bereshìt 46,3)
Quando Yacov, partito con tutta la sua famiglia alla volta dell’Egitto, arrivò a Beer Sheva, si rivelò a lui il Santo, benedetto Egli sia, dicendogli: “Non temere di scendere in Egitto, poiché là ti renderò una grande nazione!” Si pone qui la domanda: perché D-O aspettò che Yacov arrivasse fino a Beer Sheva per fargli questa promessa, quando con la sua stessa partenza Yacov aveva già dimostrato di non aver paura di scendere in Egitto? Rashi commenta: “Poiché era addolorato di dover lasciare la Terra d’Israele”. Secondo Rashi, quindi, Yacov non aveva paura di scendere in Egitto, ma era solo addolorato per ciò, e le parole di D-O dovevano servire a rafforzare il suo cuore.

Il dolore di Yacov
Yacov non era intimorito dal fatto stesso di dover scendere in Egitto. Egli sapeva che lì Yosèf gli aveva assegnato un territorio completamente separato, la terra di Goshen. Yacov non aveva quindi motivo di temere l’influenza negativa, che l’Egitto avrebbe potuto esercitare sui suoi figli, cosa che gli permise di mettersi in viaggio pieno di fiducia e con fede completa. Ma quando arrivò a Beer Sheva, al confine della Terra d’Israele, egli sentì dolore. Quella non era la prima volta che lasciava la Terra d’Israele: Yacov aveva già trascorso vent’anni a Charàn. Eppure, proprio ora egli provò dolore per il fatto di uscire dalla Terra d’Israele. In quel tempo, infatti, la sua discendenza contava settanta anime e si stava cominciando a formare il popolo d’Israele. Il luogo adatto per la crescita del popolo Ebraico era la Terra Promessa, la Terra d’Israele. Per questo, proprio ora Yacov provò dolore nell’arrivare al confine della Terra d’Israele, nel suo viaggio verso l’Egitto.

Per merito della discesa
A questo proposito arrivò la promessa del Santo, benedetto Egli sia: “Non temere di scendere in Egitto, poiché là ti renderò una grande nazione!” D-O gli promise che proprio lì, in Egitto, si sarebbe formato il popolo d’Israele come “grande nazione”. Proprio grazie alla discesa in Egitto, il popolo d’Israele sarebbe cresciuto molto di più di quanto non lo avrebbe fatto, rimanendo nella Terra d’Israele. Tuttavia, D-O non disse a Yacov “non dolerti”, ma bensì “non temere”. Egli fugò solamente i timori per le conseguenze che avrebbero potuto derivare dalla discesa in Egitto, ma non gli tolse il dolore. Il dolore per l’abbandono della Terra d’Israele e per la discesa nell’esilio non va eliminato. Anzi, questo dolore deve restare, poiché esso ricorda all’Ebreo quale sia il suo luogo originale, e ciò gli darà la forza di superare le difficoltà dell’esilio.

Pretendere la Redenzione
Tutto ciò rappresenta un insegnamento per ogni Ebreo, durante tutto il tempo dell’esilio. Da un lato, non c’è da temere e da avere paura dell’esilio. Se D-O ci ha mandato in esilio, certamente ci ha dato anche le forze necessarie per superare le sue prove ed i suoi ostacoli, e proprio grazie al superamento delle difficoltà dell’esilio, il popolo d’Israele raggiungerà la sua massima completezza e grandezza. Ed allo stesso tempo, noi dobbiamo sentire dolore per la nostra condizione d’esilio. D-O non voglia che l’Ebreo si senta comodo e tranquillo in esilio. Egli deve provare dolore per il fatto di trovarsi nella condizione di “figli esiliati dal tavolo del loro padre”. Deve gridare e pretendere: “Fino a quando!”. E saranno proprio il dolore per l’esilio e il pretendere la Redenzione, che affretteranno l’avvento del nostro Giusto Moshiach e della Redenzione vera e completa.
(Likutèi Sichòt, vol. 30, pag. 229)

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