Sfida, crescita e transizione Pubblicato il 3 Gennaio, 2024

Il ciclo di esilio e redenzione non è solo una circostanza casuale, ma un processo diretto dalla volontà Divina. D-O desidera che l’Ebreo raggiunga livelli più elevati nel suo servizio Divino e così gli pone davanti le prove dell’esilio, che lo costringono ad esprimere il suo potenziale spirituale più profondo.

Affrontare le sfide
Da un lato la gente rifugge le sfide. Esse comportano il rischio di un fallimento – altrimenti non sarebbero sfide – ed a nessuno piace la sconfitta. D’altro lato, noi cerchiamo le sfide, poichè il confronto con esse risveglia le nostre risorse più profonde, facendoci emergere dal livello ordinario delle nostre esperienze quotidiane. Un concetto simile si applica anche al nostro servizio Divino. D-O non vuole che il nostro servizio rimanga in una condizione di ristagno. Egli si presenta quindi a noi con delle sfide. Alcune di esse hanno una portata limitata, mentre altre sono più profonde ed incisive, e ci costringono ad attingere alle nostre capacità di impegno più latenti e profonde. Ed è questa la natura che contraddistingue la sfida dell’esilio. All’era del Tempio, la rivelazione manifesta del Divino ispirava il servizio Divino degli Ebrei, che veniva così adempiuto con sentimenti elevati ed una profonda intenzione. Al tempo dell’esilio, invece, il Divino è nascosto, e sono molti gli ostacoli che si oppongono alla nostra osservanza della Torà e delle mizvòt. Noi non possiamo più appoggiarci all’ambiente circostante, per sentirci motivati verso una comprensione ed un sentimento più profondo del Divino. Il nostro fulcro, ora, deve diventare interiore. Le prove dell’esilio risvegliano le risorse più profonde della nostra anima, e portano il nostro legame con D-O ad un livello molto più elevato.

Il paradosso dell’esilio
Questi concetti noi li ritroviamo nella parashà Shemòt (‘Nomi’), che descrive la degenerazione della condizione del popolo Ebraico sperimentata in Egitto. Fino a che Yossèf ed i suoi fratelli furono in vita, gli Ebrei vissero in prosperità ed in sicurezza. Ma con la morte dei figli di Yacov, si arrivò alla condizione di schiavitù degli Ebrei, costretti a lavori pesanti, fino al decreto che gettava i loro figli nel Nilo ed altri simili atti di crudeltà. Anche dopo il ritorno di Moshè e la sua promessa della redenzione, l’oppressione del popolo Ebraico continuò solo ad aumentare, al punto che Moshè stesso gridò: “Da quando sono arrivato dal Faraone a parlare in Tuo Nome, egli ha peggiorato la condizione di questo popolo”. Ciò nondimeno, accanto a queste difficoltà, la parashà narra anche di come gli Ebrei levarono il loro grido a D-O, richiamando la Sua attenzione. Ed in risposta, D-O espresse la promessa della Redenzione ed il suo impegno che: “Quando trarrai il popolo fuori dall’Egitto, servirete D-O su questo monte”, la Sua promessa cioè del Dono della Torà. Ciò aprì la possibilità ad un legame con D-O più elevato e profondo, di quanto non fosse stato possibile prima.

La storia che un nome racconta
Queste due polarità si riflettono anche nel nome della parashà stessa: Shemòt (Nomi). Due sono le dimensioni che riguardano il nome della persona. Da un lato esso rappresenta il suo aspetto più esteriore, come dimostra il fatto stesso che il nome di una persona gli sia necessario soltanto per relazionarsi al suo prossimo. Riguardo a se stesso infatti, e fintanto che si occupa delle proprie cose, egli non ha bisogno di un nome. Inoltre, diversi individui, di natura completamente differente, possono avere in comune lo stesso nome, dimostrando così che, almeno apparentemente, il nome di una persona non mostra affatto chi essa sia. Tuttavia, come l’Admòr HaZakèn ha scritto nel Tanya, un nome rappresenta la natura di un’entità e la sua forza vitale. Esso è il canale che permette l’espressione della sua natura interiore. E questo non è un fattore che riguarda solo l’essenza della persona, ma esso influenza anche la sua vita quotidiana, come mostra il fatto che egli si volti e rivolga la sua attenzione a chi lo chiama per nome. Per molti, poi, nessun suono è più caro di quello del proprio nome. Vediamo ancora che, quando una persona perde i sensi, è possibile riportarla alla coscienza, chiamandola per nome o sussurrandole il proprio nome all’orecchio. Colleghiamo ora questi punti ai concetti di esilio e redenzione. Fintanto che ciò che si manifesta è soltanto l’aspetto esteriore del nome dell’Ebreo, è possibile che egli subisca il dominio delle forze che agiscono nel mondo. Quando invece si esprime l’essenza del nome Ebraico, ‘Israel’, non vi è potere che l’esilio possa esercitare su di lui. Il nome Israel, infatti, significa ‘hai combattuto con D-O e con gli uomini, e hai vinto’ (Bereshìt 32, 29). Ciò indica la differenza fondamentale fra esilio e redenzione. L’esilio non rappresenta un cambiamento nell’essenza del nostro rapporto con D-O. Dalla Sua prospettiva, anche in esilio noi siamo i “(Suoi) figli. Ed Egli non può cambiarci con altre nazioni.” E rispetto al popolo Ebraico, anche nel ‘sonno’ dell’esilio, il cuore dell’Ebreo resta sveglio e legato a D-O. La differenza fra esilio e redenzione è quindi se, quando “siamo chiamati per nome”, noi rispondiamo, e cioè se la nostra relazione si esprime apertamente o in modo celato, restando solo a livello potenziale.

Destino e direzione
Il ciclo di esilio e redenzione non è solo una circostanza casuale, ma un processo diretto dalla volontà Divina. D-O desidera che l’Ebreo raggiunga livelli più elevati nel suo servizio Divino e così gli pone davanti le prove dell’esilio, che lo costringono ad esprimere il suo potenziale spirituale più profondo. E fin dall’inizio, D-O ha dato all’Ebreo la forza per superare queste prove. Ciò trova un’allusione nella citazione dei nomi delle tribù, all’inizio della parashà. I nostri Saggi spiegano che questa è un’espressione di quanto sia profondo l’amore che D-O nutre per il nostro popolo. “Poichè essi sono come le stelle, Egli li chiamò ciascuno per nome”. Nella legge della Torà, noi troviamo questo principio: “Un’entità importante non può mai essere annullata”. Ripetendo i nomi del popolo Ebraico, la Torà evidenzia quanto importanti essi siano per D-O e garantisce che la loro esistenza non verrà mai annullata dalle sfide dell’esilio. La Torà non cita i nomi del nostro popolo come un intero, ma i nomi di ciascuna delle tribù. Le tribù rappresentano diversi approcci al servizio Divino. Ciò indica che non solo l’essenza del popolo Ebraico, ma anche i vari e diversi approcci individuali degli Ebrei sono stati dotati della forza di sopportare l’esilio e di avanzare e crescere attraverso questa esperienza.

Dall’esilio alla redenzione
Il ciclo di esilio e redenzione è significativo non solo per il popolo Ebraico, ma anche per il mondo in generale. Lo scopo della creazione è quello di crearvi una dimora per D-O. Questa dimora è formata dal popolo Ebraico, che si occupa dei vari aspetti dell’esperienza della vita terrena e rivela il Divino che si riveste di questi elementi dell’esistenza. Durante l’esilio, gli Ebrei sono dispersi in diversi paesi ed esposti a diversi tipi di incontri. Come le prove dell’esilio elevano gli Ebrei, portandoli ad un livello più profondo di connessione con D-O, così esse elevano l’ambito del loro servizio, rendendo manifesto il Divino che permea il nostro mondo nel suo complesso. La storia dell’esilio e della redenzione non è solo un fatto che riguarda il passato. Al contrario, oggi il concetto assume una particolare rilevanza, poichè questa è l’essenza di un processo di transizione, il cui effetto di espansione tocca tutte le dimensioni della nostra esistenza attuale. Prendendo a prestito un’espressione del Rebbe Precedente: “Tutto è pronto per la Redenzione; persino i bottoni sono stati già lucidati”. Tutto ciò che è necessario è un cambio di focalizzazione, e cioè che noi apriamo i nostri occhi, vediamo l’influenza di Moshiach e facciamo in modo che essa comprenda tutta l’umanità in generale.
(Riassunto da Likutèi Sichòt, vol. 3, pag. 843; vol. 16, pag. 36; vol. 26, pag. 301; Sichòt parashà Shemòt, 5751)

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