Un finale non programmato Pubblicato il 29 Marzo, 2012

Una vita difficile, tanta amarezza e tanta rabbia nel cuore per un orfano cresciuto da solo. Questo, fino a quell'incontro....

Daniel (si tratta di uno pseudonimo) era un giovane Ebreo di trent’anni, non osservante. All’età di cinque anni, egli era rimasto orfano. Sua madre era stata colpita da una malattia che, nel giro di un anno, l’aveva portata alla morte, mentre la fine che fece suo padre, non è nota. Ciò che si sa di certo, in ogni caso, è che, a cinque anni, Daniel rimase solo, triste e sconsolato. In qualche modo, egli era arrabbiato con sua madre per averlo abbandonato: tutti gli altri bambini avevano dei genitori, e solo lui, no. Si rendeva conto che non aveva nessun senso serbarle rancore, che non era colpa sua, ma non riusciva a liberarsi da quel sentimento che lo consumava.

   Gli anni passarono e Daniel si allontanò sempre di più dall’Ebraismo: sua madre era stata religiosa e quello, per lui, era come un modo per ‘vendicarsi’. Nonostante ciò, un bel giorno si ritrovò con un’idea che gli girava per la testa e non gli dava pace: andare dal Rebbe di Lubavich. Come arrivò a questa idea non è per nulla chiaro, l’unica cosa che Daniel ricordava era che sua madre gli aveva parlato qualche volta del Rebbe. Comunque sia, Daniel seguì l’impulso. Forse la sua intenzione era solo provocatoria, o forse vi era una dose di curiosità alla base della sua decisione, o magari semplicemente era la noia che lo aveva spinto a cercare un diversivo. In ogni caso, la decisione era presa.

  Daniel aveva sentito che il Rebbe riceveva visite solo di notte, e solo una o due volte alla settimana. Una notte, quindi, egli prese un taxi, diretto a Crown Heights, la zona di Brooklyn dove sorge ‘770’, il ‘quartier generale’ del Rebbe. Una volta entrato, restò meravigliato nel vedere il posto illuminato, frequentato ed animato come se fosse mezzogiorno. Giovani con la barba e l’aspetto amichevole andavano e venivano, altri studiavano Torà ad alta voce in una sala attigua, mentre qualcuno ogni tanto gli passava accanto con grande fretta. Un giovane gli si avvicinò, gli strinse la mano e gli chiese se poteva essergli di qualche aiuto. Daniel fece capire che cercava il Rebbe di Lubavich. Il giovane, allora, gli indicò un piccolo atrio, dove una fila di persone aspettava in silenzio e nervosamente, davanti ad una grande porta di mogano chiusa. “Tutti quelli, aspettano di essere ricevuti in ‘yechidùt’ (udienza privata)”, disse il giovane. “Il Rebbe è lì” continuò, indicando la porta “e fra di loro ci sono persone che aspettano da mesi questo incontro”.

   Daniel si diresse verso quella fila di persone, studiò la situazione per qualche istante, dopodiché fece la sua mossa. Andò dal primo della fila, lo toccò leggermente sulla spalla per attirare la sua attenzione, e poi gli disse sottovoce: “Mi scusi. Ho qualcosa di molto urgente, proprio molto molto urgente! Devo raggiungere l’aeroporto entro breve. La prego, si tratta di qualcosa di veramente importante e non prenderà più di un minuto, forse anche meno. Mi lascerebbe passarle davanti?” L’uomo esitò per qualche secondo, fissò Daniel negli occhi, scrollò le spalle e poi disse: “Beh, se è così urgente… Cosa vuole che le dica…” e lo lasciò passare.

  A quel punto, uno dei segretari del Rebbe, Rav Groner, entrò nell’atrio, vide cosa stava succedendo, e cioè che Daniel si era infilato lì senza permesso, e si affrettò verso di lui per farlo uscire. In quel momento, però, la porta del Rebbe si aprì, qualcuno con gli occhi arrossati, probabilmente dal pianto, ne uscì e Daniel ne approfittò per entrare. Rav Groner lo rincorse per fermarlo, ma il Rebbe gli fece cenno di lasciarlo stare, cosicché il segretario non poté fare altro che lasciarli soli, chiudendo la porta dietro di loro.

   Daniel si sedette sulla sedia, di fronte alla scrivania del Rebbe, e non disse niente. Si limitò a guardare il Rebbe, forse con aria di sfida, forse solo con curiosità, ma in silenzio. Il suo piano era quello di costringere il Rebbe a parlare per primo. Il Rebbe lo guardò per alcuni secondi e poi gli disse, con un accento europeo: “Io ti conosco”. Daniel indicò se stesso, scrollò le spalle, alzò le mani, e, scuotendo la testa, disse: “Me? No, non me!” Il Rebbe continuò: “Ho ricevuto una lettera alcuni anni fa.” “Non da me”, replicò Daniel. “A proposito di te.” “A proposito di me?” disse Daniel incredulo. “E chi avrebbe scritto un lettera su di ME?” Il Rebbe si alzò, tirò fuori una lettera da un armadietto, e tornò a sedersi, mettendola sul tavolo. “Tua madre.”

   Daniel era shockato. Poteva vedere da lontano che si trattava di una vecchia lettera, scritta a mano. Poteva essere veramente di sua madre? “Mi scrisse venticinque anni fa, dicendo che stava morendo, e mi chiedeva di pregare per te. È qui, puoi leggerla.” Il Rebbe girò la lettera verso Daniel, continuando però a tenerla con una mano, in modo da non lasciare che egli la prendesse. Daniel lesse la lettera. Era come il Rebbe aveva detto! Sua madre non l’aveva semplicemente abbandonato! Si sentì qualcosa rivoltare dentro, mentre la testa gli girava vorticosamente. Tutti quegli anni…. si era sbagliato! Sua madre aveva veramente cercato di fare tutto il possibile per lui! Lacrime riempirono i suoi occhi, ma non poté piangere: il tumulto interiore era troppo forte ed improvviso. “Rebbe!” egli pregò. “Posso avere questa lettera? La prego, è di mia madre!” Il Rebbe però riprese la lettera e disse: “Posso dartene una copia, ma questa lettera è stata scritta a me e resta con me.” “Ma è di mia madre!” disse Daniel con una stretta al cuore, incapace di capire perché il Rebbe, semplicemente, non gliela desse! Si trattava di sua madre!! “Perché no?”, sussurrò, come un bambino. Il Rebbe rispose: “Ogni anno, subito prima di Yom Kippur, raduno tutti gli studenti nella mia yeshivà, alcune centinaia di giovani, e li benedico” “E allora?” lo interruppe Daniel. Il Rebbe continuò: “Prima di benedirli… leggo loro questa lettera.”

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