Una tragedia evitata Pubblicato il 1 Dicembre, 2019
Cominciai a tradurre, parola per parola, la lettera del Rebbe, al giovane che con tanta insistenza aveva voluto rivolgergli una domanda, tramite l'Igròt Kodesh. Ad ogni frase, vedevo il giovane impallidire sempre di più. Il ragazzo era sbalordito! “Proprio questo ho chiesto al Rebbe. È incredibile!"
Rav Shmuel Machpuz già da alcuni anni opera, in quanto emissario del Rebbe di Lubavich, in uno dei quartieri di Tel Aviv. Fra i tanti avvenimenti interessanti occorsigli, vale la pena raccontare un fatto accaduto un paio di anni fa, che non può fare a meno di procurare una grande emozione. Racconta rav Shmuel: “Negli Shabàt invernali, ho l’abitudine, terminato il pasto con la mia famiglia, di recarmi al Beit Chabad, prendere uno dei tavoli pieghevoli e aprirlo nel centro commerciale lì vicino, mettendovi sopra abbondanza di cibo e bevande. Dopodiché, passo attraverso giardini pubblici ed altri luoghi dove so che i giovani sono soliti incontrarsi, e li invito a venire a sentire il kidùsh e a partecipare al pasto dello Shabàt. Una volta seduti insieme, si crea l’occasione per trasmettere spunti sulla parashà della settimana, storie ricche di significato, racconti di prodigi o anche semplicemente intonare insieme melodie, in un’atmosfera di gioia. Spesso la cosa si protrae fino a tardi, e molti giovani pongono domande su temi di fede ed altro. Quasi sempre mi capita di raccontare storie di miracoli accaduti in seguito ad una risposta che il Rebbe ha dato, a chi gli si è rivolto tramite Igròt Kòdesh (una serie di volumi contenenti migliaia di lettere del Rebbe, in risposta alle più disparate domande su ogni argomento o richieste di benedizione da parte di Ebrei, e anche non, di ogni parte del mondo). Una volta, prendendo il necessario dal Beit Chabad, pensai fosse una buona idea portare anche un volume dell’Igròt Kòdesh, così da poter mostrare ciò di cui spesso parlavo. E poi, chissà, forse qualcuno avrebbe voluto usarlo. Proprio quella volta, un numero molto esiguo di giovani rispose al mio invito e si vedeva oltretutto che essi pensavano solo alla serata di divertimento che avevano in programma di trascorrere, nei vari locali che erano soliti frequentare, dopo il kidùsh. Poco dopo, quindi, mi ritrovai da solo e pensai ormai di raccogliere il tutto e tornarmene a casa. In quella, però, arrivarono due giovani del quartiere e chiesero di fare il kidùsh. I due si fermarono a lungo, interessati alla conversazione che si era aperta fra di noi. Ad un certo punto, dopo aver raccontato dell’Igròt Kòdesh e di alcune storie di miracoli connesse ad esso, mostrai loro il libro. Un grande entusiasmo pervase i due giovani. Uno di loro chiese di poter scrivere una lettera al Rebbe, per porgli una domanda che gli premeva. Gli spiegai che era meglio rimandare al termine dello Shabàt, momento in cui era permesso scrivere ed anche prepararsi in modo più adeguato a questo particolare momento, in cui ci si rivolge al Rebbe (in genere si fa il lavaggio delle mani, si mettono alcune monete per la carità e si prende una buona decisione di aggiungere o migliorare qualcosa nel proprio servizio Divino, così da rendere se stessi un ‘recipiente’ più adatto a ricevere la benedizione del Rebbe). Il giovane, però, era molto determinato a porre immediatamente la sua domanda al Rebbe. Gli raccontai allora la storia di rav Mendel Futerfas, un devoto e molto speciale chassìd del passato, che mentre era confinato in un campo di lavoro in Siberia, non potendo scrivere al Rebbe, si concentrò, rivolgendosi a lui nel suo pensiero, ed il Rebbe gli rispose con una lettera indirizzata alla moglie che viveva allora a Londra! Il Rebbe sa tutto e può rispondere anche ai nostri pensieri. Lo invitai comunque a prendere una buona decisione, cosa che egli fece, dopodiché chiuse gli occhi, pensò alla sua domanda ed aprì ‘a caso’ (secondo ciò che la Divina Provvidenza fa ‘capitare’) il volume dell’Igròt Kòdesh. La risposta che trovò era in Yiddish ed io la lessi, con l’intenzione di tradurgliela. A dire il vero, non capii cosa potesse avere a che fare quella lettera con il giovane che avevo davanti. Il Rebbe parlava del gravissimo danno che si reca al popolo Ebraico, quando un Ebreo sposa una gentile. Era una lettera non abituale e scritta in modo particolarmente aspro e tagliente. Il ragazzo, pur non essendo religioso, proveniva da una famiglia ortodossa, e stentavo a credere che potesse essere arrivato al punto di pensare ad un matrimonio misto. In ogni caso, il mio compito era solo quello di riferirgli il messaggio del Rebbe, e così cominciai a tradurgli, parola per parola, la lettera del Rebbe. Ad ogni frase, vedevo il giovane impallidire sempre di più. Il Rebbe si riferiva ad una simile eventualità, come alla peggiore tragedia che possa capitare ad un Ebreo, dicendo che bisogna fare tutto il possibile per evitarla, visto che il danno riguarda non solo la vita in questo mondo, ma anche quella nel mondo futuro e che i genitori, per primi, devono fare di tutto perché ciò non accada. Il Rebbe spiegava che un simile atto procura un dolore così profondo, in quanto esso viene in aiuto al progetto di Hitler stesso, il cui scopo era far sì che al mondo vi fossero meno Ebrei possibili, ed il matrimonio misto porta direttamente a ciò. Il Rebbe augurava infine alla famiglia di riuscire ad evitare una simile tragedia (Igròt Kòdesh vol. 23, pag. 78). Il ragazzo era sbalordito, e così anche l’amico che, a quanto pare, aveva capito di cosa si stava trattando. “Ma come, non è Ebrea?!”, gli chiese. “Perché, non lo sapevi?!” rispose il giovane. Egli si rivolse poi a rav Shmuel: “Proprio questo ho chiesto al Rebbe. È incredibile! Mi sono innamorato di una ragazza e, da quando ho scoperto che è cristiana e che non intende certo convertirsi, non so più cosa fare. Dentro di me, da mesi, si combatte una battaglia che mi strazia ed ora, ecco che il Rebbe mi risponde, chiaro e diretto!” Parlammo ancora per una mezz’ora, dopodiché ci separammo, ed io tornai a casa. Mi capitò ancora di incrociare quel giovane, ma sempre di sfuggita, fino a che venni a sapere che si era trasferito. Un anno e mezzo dopo lo incontrai. Stentai a credere ai miei occhi: il suo viso era contornato da una folta barba, indossava i zizìt e una grande kippà gli copriva la testa! Mi raccontò di essere entrato a studiare in yeshivà, di aver lasciato la ragazza gentile e di essere finalmente tornato alle sue radici!”