Un’unione di opposti Pubblicato il 30 Luglio, 0203

Quando l’Ebreo si sforza di servire D-O, mentre è sprofondato al livello più basso, egli merita di arrivare a quello più elevato. E la stessa cosa accade anche per quel che riguarda la Redenzione. Proprio perché questo è un periodo di livello così basso, di così grande oscurità, possiamo sentire in esso i passi di Moshiach.

SAMSUNGVe haià èkev tishmeùn” (Devarìm 7, 12)
I commentatori della Torà danno due diverse e opposte interpretazioni del termine Èkev. Èkev è il nome della terza parashà del libro Devarìm, e deriva dal suo verso di apertura: “Ve haià èkev tishmeùn” (E avverrà che, in seguito – èkev all’aver dato ascolto…). Rashi spiega che con ‘èkev’ si intendono “i precetti lievi che l’uomo prende alla leggera (lett. ‘calpesta sotto i tacchi’)”. Altri commentatori spiegano che èkev si riferisce al significato di ‘estremità e fine’, e cioè, secondo la Torà, alla ricompensa che l’Ebreo riceverà al termine del suo lavoro. Secondo la prima interpretazione, la Torà parla qui dell’Ebreo che si trova ad un livello piuttosto basso, e che va spronato a rispettare anche i precetti lievi. Secondo la seconda interpretazione, invece, la Torà si riferisce qui al termine ed al completamento del lavoro, agli Ebrei di livello elevato, che hanno già compiuto tutti i precetti e che sono giunti ora al momento di ricevere la loro ricompensa. Come possono coesistere due interpretazioni così opposte?

Passi nel buio
Questo contrasto appare anche nelle due interpretazioni che vengono date del concetto di ‘ìkveta deMeshìcha’ (‘il tallone di Moshaich’, espressione che viene usata per indicare il periodo immediatamente precedente alla Redenzione). Una prima interpretazione vede nel termine ìkveta il significato derivante da akevèi haraglàim / i talloni dei piedi, il livello più basso dell’uomo. Ciò si riferirebbe quindi ad un periodo di bassezza (così come i nostri Saggi descrivono i segni negativi che caratterizzano questo periodo oscuro), nel quale la luce Divina non è né vista né sentita, a somiglianza del tallone, la cui vitalità e soglia di percezione delle sensazioni è estremamente bassa. La seconda interpretazione suggerisce il significato di ‘orme di Moshiach’, il periodo cioè in cui si possono già sentire i passi del Moshaich. Il riferimento in questo caso è quindi ad un periodo di massima elevazione, dove già si sentono i passi della Redenzione che si avvicina.

La fine e l’inizio
La spiegazione di tutto ciò sta nel fatto che esiste un intimo e profondo collegamento fra il livello più elevato e quello più basso, fra la testa ed i piedi e fra la fine dell’opera ed il suo inizio. Quando l’Ebreo si rafforza, accrescendo la sua attenzione verso il compimento anche dei precetti più lievi, egli arriva ad una loro completezza. Quando l’Ebreo si sforza di servire D-O, mentre è sprofondato al livello più basso, egli merita di arrivare a quello più elevato. E la stessa cosa accade anche per quel che riguarda la Redenzione. Proprio perché questo è un periodo di livello così basso, di così grande oscurità, possiamo sentire in esso i passi di Moshiach. È proprio il senso di sacrificio richiesto all’Ebreo che deve servire D-O in una simile epoca, lo strumento che permetterà la rivelazione più elevata, la rivelazione della luce di Moshiach.

Un grido che risveglia
L’apice di questo contrasto si mostra proprio nell’era attuale. Da un lato, secondo tutti i segnali, è chiaro che “ecco, egli (Moshiach) arriva”, e che Israele ha ormai portato a termine il proprio compito, e l’unica cosa che manca è un gesto di D-O che tragga il popolo d’Israele fuori dall’esilio, per portarlo alla Terra Santa. Eppure, nonostante tutto ciò, la Redenzione non è ancora arrivata e si leva forte un grido: “Fino a quando?!” Ed è proprio questo grido che farà sì che D-O porti la Redenzione di fatto, con la costruzione del Terzo Tempio, che sarà una fusione del Primo e del Secondo Tempio, la fusione di ogni perfezione, che lo renderà eterno, così come la Redenzione stessa sarà una redenzione eterna, alla quale non seguirà più alcun esilio, e tutto ciò al più presto.
(Sefer haSichòt 5751, vol. 2, pag. 760)

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