Quando qualcosa fa male, si grida Pubblicato il 20 Dicembre, 2023

Quando l’argomento in questione riguarda la salvezza di un bambino Ebreo dalla morsa della schiavitù dell’Egitto, che per noi oggi si traduce nella salvezza dall’asservimento alla cultura ed alle ideologie che sono estranee all’Ebraismo, allora si rendono necessarie parole dure ed azioni immediate.

Parole dure
Artwork by Alex Levin, Israel.La parashà Vaygàsh inizia con la narrazione dell’incontro di Yehudà e Yosèf. Yehudà, spinto dal desiderio di liberare suo fratello più giovane, Binyamin, accusato di aver rubato la coppa d’argento di Yosèf, chiede il permesso di rivolgersi personalmente a colui che crede non essere altro che il ‘viceré’ dell’Egitto, ignaro di trovarsi invece davanti al proprio fratello, Yosèf. Le parole d’apertura del discorso di Yehuda “Non si accenda la tua ira” indicano, secondo il commento di Rashi, come Yehuda si sia rivolto al ‘viceré’ con durezza, intendendo egli dire: “Non ti adirare per le parole dure che stai per sentire da me”. Perché Yehudà cercò di liberare suo fratello dalla schiavitù, parlando con durezza alla seconda persona, per grado di importanza, di tutto l’Egitto? Non sarebbe stato più logico iniziare il suo discorso con un tono più mite? Molto probabilmente, avrebbe raggiunto migliori risultati in questo modo, che con un approccio aggressivo. Se poi la via più mite fosse fallita, avrebbe sempre potuto cambiare tattica.

Quando è veramente importante
In effetti, se si fosse trattato di una questione di minore importanza, Yehuda si sarebbe comportato seguendo una linea del tutto razionale: prima di parlare avrebbe considerato con cura quale tipo di approccio sarebbe stato più efficace, se quello mite o quello duro. Ma la situazione che aveva di fronte riguardava la vita stessa di Benyamin, così come quella di suo padre, Yacov, in quanto “la vita dell’uno era legata a quella dell’altro”. In questo caso, la logica non poteva fungere da arbitro finale. La situazione era così grave da mettere le emozioni di Yehuda in primo piano. Per questo, egli iniziò a parlare con tanta emozione, in linea col detto popolare: “Quando qualcosa fa male, si grida.” Inoltre, Yehuda sentì che il viceré stesso sarebbe rimasto molto più impressionato, nel momento in cui avesse realizzato quanto per lui la questione fosse critica, cosa che risultava chiara dal fatto che non aveva rispettato i convenevoli diplomatici e che le sue parole non erano state pronunciate nei toni mielati del garbo e dell’educazione. Quando chi parla riesce a trasmette quanto l’argomento in questione sia per lui vitale, tanto da penetrarlo in tutto il proprio essere, fin nel più profondo, la cosa indurrà l’ascoltatore ad accogliere la sua richiesta.

Liberiamo i nostri figli dalla ‘schiavitù’
In ciò noi troviamo un importante insegnamento per ogni Ebreo, valido in ogni tempo ed in ogni luogo. Quando l’argomento in questione riguarda la salvezza di un bambino Ebreo dalla morsa della schiavitù dell’Egitto, che per noi oggi si traduce nella salvezza dall’asservimento alla cultura ed alle ideologie che sono estranee all’Ebraismo, allora si rendono necessarie parole dure ed azioni immediate. Quello non è il momento per nominare commissioni di cosiddetti ‘esperti’, che mediteranno sulla questione con la dovuta attenzione, e che infine, dopo una lenta ed attenta elaborazione, proporranno una soluzione basata sulla disponibilità di ampi fondi, e le cui conclusioni verranno poi messe al voto di una commissione generale, che ha l’ultima parola sulla decisione di spendere o meno dei soldi per salvare bambini Ebrei dalla ‘schiavitù dell’Egitto’. Una situazione come questa è pericolosa e rappresenta una minaccia per la vita. Per salvare bambini Ebrei dall’educazione e dalla cultura dell’ ‘Egitto’, dallo stile di vita che porta all’assimilazione ed ai matrimoni misti, è necessario agire immediatamente e nel modo più eclatante. Questo tipo di approccio fermo e deciso assicurerà la loro liberazione dalla nostra moderna ‘schiavitù d’Egitto’. Ciò garantirà loro un’educazione, per il loro bene e per la loro felicità, nelle sacre tradizioni dell’Ebraismo.
(Basato su Likutèi Sichòt, vol. 20, pag. 212 – 217)

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