Superare la possibilità di sbagliare Pubblicato il 6 Giugno, 2023

La parashà Shelàch riporta il racconto delle spie e della loro trasgressione nei confronti della volontà di D-O, che ebbe come risultato la permanenza forzata degli Ebrei nel deserto per quarant'anni. Apparentemente, il loro errore fu solamente grave e negativo, eppure...  

 

  spieÈ detto che le Feste abbiano un intimo collegamento con le porzioni della Torà, che vengono lette nello stesso periodo dell’anno, in cui esse cadono. Fra queste ultime, vi è la parashà Shelàch, che è compresa nel mese di Sivàn, ossia nel tempo del Matàn Torà. La connessione fra questa parashà ed il Matàn Torà, però, non sembra essere così evidente. Prima di tutto, come dice Rashi nel suo commento, le parole “Shelàch lechà” (“Manda per te”), dimostrano che D-O non ha comandato a Moshè di mandare delle spie. Egli ha, piuttosto, lasciato la scelta alla discrezione di Moshè. Ciò sembra avere un senso addirittura contrario a quello del Matàn Torà, in cui la comunicazione dei precetti che D-O comandò, perché fossero compiuti, fu esplicita. In secondo luogo, la parashà Shelàch riporta il racconto delle spie e della loro trasgressione nei confronti della volontà di D-O, che ebbe come risultato la permanenza forzata degli Ebrei nel deserto, per quarant’anni.

   Questi concetti di peccato e di esilio hanno un senso opposto a quello del Matàn Torà, momento in cui l’impurità derivata dal peccato dell’Albero della Conoscenza  lasciò il popolo Ebraico, che ebbe allora l’opportunità di arrivare alla libertà definitiva, come i nostri Saggi hanno dichiarato: “Se le prime Tavole non fossero state spezzate… nessun paese e nessuna lingua li avrebbe potuti dominare.” Esilio e peccato sono associati al peccato del Vitello d’Oro, che ebbe luogo nel mese di Tamùz. Il mese di Sivàn, invece, è associato a qualità positive, al Matàn Torà.

    Queste difficoltà possono essere risolte sulla base della spiegazione, di come i concetti derivati dalla parashà Shelàch si applichino al nostro servizio Divino. In linea di principio, la spedizione delle spie avrebbe dovuto essere senz’altro un fatto desiderabile, dato che fu decisa da Moshè stesso. Inoltre, le persone stesse che egli scelse erano capi di popolo, individui capaci di portare a termine la missione, che venne loro affidata. La natura positiva di una simile missione emerge anche dall’haftarà, nella quale viene descritta la spedizione di spie da parte di Yehoshua, ed il successo della loro missione. Questi fattori positivi esistono, in quanto la missione, associata a Shelàch, simbolizza la discesa dell’anima in questo mondo materiale.

  Ogni anima Ebraica è ‘una parte di D-O Stesso’. Essa scende in questo mondo,  rivestendosi di un corpo fisico, per svolgere la missione di creare una dimora per D-O nei mondi inferiori. Per svolgere questa missione, occorre ‘esplorare la terra’, così da esaminare la natura del servizio che deve essere svolto, e scoprire quali conflitti e quali difficoltà si incontreranno e quale sia la migliore via possibile, per trasformare la terra in una dimora per D-O. Questa missione, come accadde per la spedizione delle spie, è lasciata alla discrezione dell’uomo. Infatti, come Rashi mette in risalto nel suo commento al primo verso della parashà, D-O permette che vi sia la possibilità di sbagliare, poiché, per creare una dimora per D-O nei mondi inferiori, l’uomo deve agire di sua propria iniziativa, basandosi sulla propria scelta e decisione. Questo intento è associato al Matàn Torà.

   I nostri Saggi spiegano che il Matàn Torà rappresentò l’annullamento del decreto che separava il mondo fisico da quello spirituale. In particolare, ciò si presentò in due aspetti: la discesa della dimensione spirituale in quella fisica, come è scritto: “E D-O discese sul Monte Sinai”, e l’elevazione della dimensione fisica a quella spirituale, come è scritto: “E Moshè salì a D-O”. Nonostante il Matàn Torà sia collegato ad entrambi questi aspetti, dei due, l’elevazione della dimensione fisica, la trasformazione degli aspetti materiali del mondo in una dimora per D-O, rappresentano lo scopo finale. Ciò si rispecchia nel servizio della persona che prende l’iniziativa, atto che, nel linguaggio della Cabala, viene chiamato ‘risveglio dal basso’. Questo concetto, ossia l’importanza del servizio, che comporta una propria iniziativa personale e che si esprime attraverso la scelta positiva che la persona fa, nonostante essa abbia la possibilità di sbagliare, è riflesso anche negli eventi connessi al Matàn Torà.

   Dopo la rivelazione del Monte Sinai, Moshè salì sul monte per quaranta giorni per ricevere la Torà. Alla conclusione di questi quaranta giorni, tuttavia, D-O concesse la possibilità di sbagliare, come la Torà racconta: “Ed il popolo vide che Moshè tardava a scendere dal monte”, una possibilità che, alla fine, ebbe la sua conclusione nel peccato del Vitello d’Oro e nella rottura delle Tavole. Perché D-O permise una simile possibilità? Poiché questo è lo scopo finale del servizio dell’uomo, di esistere in un ambiente dove vi è la possibilità di sbagliare e, ciò nonostante, di superare questa possibilità e servire D-O attraverso la propria scelta personale e la propria iniziativa. Anche se questo intento non fu realizzato immediatamente, e gli Ebrei, allora, peccarono, questo errore fu corretto tramite il servizio della teshuvà (pentimento, ritorno) dell’Ebreo. In conseguenza di ciò, essi meritarono le seconde Tavole, il cui livello sorpassava le prime.

   Basandoci su quanto detto, rivediamo, ora, il collegamento che esiste fra la parashà Shelàch ed il Matàn Torà, che cadono nello stesso periodo dell’anno: il mese di Sivàn. Abbiamo visto che il Matàn Torà mette in risalto il servizio, che si effettua là dove la possibilità di errore esiste, e questo è lo stesso tema della parashà Shelàch, che esprime l’importanza del servizio svolto di propria iniziativa. In questo modo, quando, nonostante la possibilità di errore, uno resta fedele e fermo nel suo impegno verso D-O, ecco che egli può raggiungere i livelli più elevati. Quanto detto ha rilevanza nel periodo in cui ci troviamo, e cioè nei quaranta giorni dopo il Matàn Torà. È questa un’opportunità di raggiungere le vette più alte, di combinare le vette spirituali, che accompagnarono le prime Tavole, con il vantaggio del servizio, basato sulla propria iniziativa. Questi concetti devono, quindi, arrivare ad influenzare il nostro comportamento, portandoci ad un accrescimento delle nostre azioni positive.

   In generale, la missione di ogni Ebreo è collegata alla Torà. Ogni volta che un Ebreo studia Torà, le parole che egli pronuncia sono parole di D-O, come dice il verso: “La mia lingua ripeterà i tuoi detti”. I “detti”, le parole della Torà, appartengono a  D-O, e l’uomo, semplicemente li ripete. Ogni Ebreo ha, inoltre, la possibilità di rinnovare il Matàn Torà. Ciò emerge dal verso che precede i Dieci Comandamenti: “E D-O pronunciò queste parole, dicendo…”. Generalmente, la parola “dicendo” implica che le parole dette debbano essere riportate ad altri. Questo, però, non poteva essere il caso del Matàn Torà, dal momento che ogni Ebreo (comprese le anime delle generazioni future) vi fu presente. In questo contesto, quindi, la parola “dicendo” (‘lemor’) significa che, col Matàn Torà, D-O ha concesso la possibilità ad ogni Ebreo, nel momento in cui egli studia la Torà, di collegarsi a D-O, Che pronuncerà di nuovo le parole della Torà, che egli starà studiando.

   In questo contesto, è importante ricordare la ‘campagna’ lanciata dal Rebbe, di stabilire lezioni di Torà per il pubblico, in modo che ognuno apporti il proprio contributo, organizzando egli stesso una lezione, cui partecipino, preferibilmente, dieci persone, o, al minimo, tre. Ogni Ebreo che si impegna, con tutte le sue forze, nella sua missione, consapevole che essa gli appartiene, essendo egli un emissario di D-O in questo mondo, affretterà la venuta di Moshiach. Aggiungendo il numero dieci (simbolo delle dieci forze dell’anima) al valore numerico della parola Ebraica “shaliach” (emissario) si arriva, infatti, al numero equivalente alla parola ‘Moshiach’. Possiamo noi non dover aspettare più a lungo l’avvento di Moshiach, ma, piuttosto, vedere come egli arrivi immediatamente, non fra quaranta giorni, e neppure fra quaranta minuti. Possa, invece, essere questo stesso momento l’ultimo istante dell’esilio ed il primo della Redenzione.
(Shabat parashà Shelàch, 23 Sivàn 5750)

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