‘Ama il tuo prossimo come te stesso’ Pubblicato il 9 Agosto, 2024
Amare se stessi è un fatto naturale, che non occorre imparare, ma amare l'altro, anche quando non ci piace e ci da fastidio...!? Come può la Torà pretendere di comandare ai nostri sentimenti? La vera domanda, che dobbiamo porci, però, è: 'Chi è, veramente, per noi, il nostro prossimo, l'altro Ebreo?
Nel quinto giorno del mese di Menachem Av, noi ricordiamo la scomparsa dell’Arì haKadòsh, il santo Arìzal (rav Yitzchàk Luria, acronimo di Haelokì Rabbi Yitzchàk Zachùr Latòv), grande Cabalista vissuto fra il 1534 e il 1572. Nel libro di preghiere secondo l’uso dell’Arìzal, troviamo, all’inizio della preghiera del mattino, la frase: “Io prendo su di me il precetto positivo di – Ama il tuo prossimo come te stesso-” Come mai, secondo l’Arìzal, questa frase dovrebbe costituire una preparazione alla preghiera stessa? La preghiera, infatti, è un modo di staccarsi dal mondo, per collegarsi a D-O, mentre la frase citata è una richiesta di collegarsi con il prossimo. Perché allora, proprio nel momento in cui andiamo a staccarci dal mondo, chiediamo a noi stessi di collegarci con il prossimo? Immergersi nel Mikve, meditare sulla grandezza dell’Onnipotente, queste sembrerebbero preparazioni più adatte al momento della preghiera. Una decisione come quella di amare il nostro prossimo come noi stessi, avrebbe molto più senso, se venisse presa dopo la preghiera, e cioè, prima del momento in cui iniziamo ad occuparci delle cose del mondo, ad entrare in contatto con gli altri.
Per capire l’intenzione dell’Arìzal, conviene porci davanti alla domanda: cosa vuol dire –Ama il tuo prossimo come te stesso-? I precetti si dividono in due categorie: quelle dell’uomo verso il suo prossimo e quelle dell’uomo verso D-O. Nella prima categoria rientrano precetti come l’onorare i genitori, l’ospitalità, la Zedakà, ecc. Nella seconda, troviamo la preghiera, i Tefillìn, la Mezuzà, ecc. Nel momento, quindi, in cui diciamo –Ama il tuo prossimo come te stesso-, noi andiamo a collegarci solo con una metà dei precetti, e cioè con la categoria di quelli dell’uomo verso il suo prossimo. Che rapporto c’è, infatti, fra l’amore per il prossimo, da una parte, e la preghiera, i Tefillìn e le Mezuzòt, dall’altra?
Per trovare una risposta a queste domande, dobbiamo porci delle nuove domande: che cos’è l’Ebreo? Che cos’è la Neshamà (anima)? Cosa vuol dire collegarci con Ha Shem? Vi sono diversi livelli della Neshamà. Un livello, il più profondo ed essenziale, la radice dell’anima stessa, è quello in cui vi è un’unità assoluta e completa con il Creatore. Questa parte dell’anima, che è dentro di noi, può essere chiamata essa stessa ‘Creatore’. E’ un livello più alto del Gan Eden, è là dove tutto è ‘uno’ con HaShem. Discendendo di grado, si arriva ad un secondo livello, in cui c’è un ‘allontanamento’ dell’anima, che la rende un’entità separata, a se stante. A questo livello, si parla già di anime al plurale. Esse vogliono collegarsi ad HaShem, ma questo desiderio dimostra, appunto, che esse non sono più ‘uno’ con HaShem, ma ormai ‘due’. Qui, però, pur essendo al ‘plurale’, esse mantengono ancora fra di loro uno stesso livello. Discendendo ancora di un grado, si arriva ad un livello, in cui ogni anima si differenzia dall’altra, prendendo un suo compito specifico, una sua caratteristica particolare. Qui il legame con HaShem è meno sentito, mentre si avverte di più quello con il proprio compito. Tutto ciò ricorda il processo della nascita. Anche in questo, infatti, si passa dal livello di unità completa con il padre (il seme), a quello dove inizia la formazione di un corpo, ma non vi è ancora nessuna divisione in organi diversi, e le cellule sono ancor uguali fra di loro, per arrivare poi alla differenziazione vera e propria, ecc.
Arriviamo qui, allora, a porci un’ulteriore domanda: qual’è il compito dell’Ebreo nel mondo? Di fatto ci sono due compiti, o meglio, due direzioni di lavoro. Una è quella di elevare noi stessi e tutta la creazione verso il Creatore. L’altra è quella di attirare il Creatore nel mondo, preparandoGli qui, in basso, una dimora dove Egli possa rivelarsi. La completezza, però, è data, quando le due direzioni, i due compiti trovano un’unione. Come è possibile ciò? Quanto più noi aumentiamo la nostra capacità di amare l’altro (Ahavàt Israel), senza fermarci a considerare le sue caratteristiche esteriori, piacevoli o spiacevoli, cercando di aiutarlo, senza preferenze, senza aspettative, senza apprezzamenti, tanto più emerge la VERITA’, e cioè che io e lui non siamo ‘due’, ma siamo ‘UNO’! Ciò riporta tutto al livello del Creatore, là dove tutto è UNO.
Torniamo ora al ‘Ama il tuo prossimo come te stesso ‘. Non è stato detto di amare il tuo prossimo e basta, ma di amarlo come ami te stesso. Come è veramente possibile una cosa simile? Sappiamo che l’amore per se stessi è un amore naturale, innato, che caratterizza il neonato fin dal primo momento. Per lui, infatti, il fatto che la mamma sia stanca, abbia mal di testa o mal di denti, o sia uscita, non ha alcuna importanza. Nel momento in cui sente fame, o un qualsiasi altro bisogno, il neonato vuole la sua mamma subito, punto e basta. Solo col tempo, crescendo, egli impara che esiste anche ‘l’altro’, che lo si deve rispettare, tenere in conto, aiutare ed amare. Ma questo amore non sarà mai lo stesso tipo di amore, che uno ha per se stesso. Se così, come è possibile comandare, che ciò che è naturale sia uguale a ciò che non è naturale?
L’amore per l’altro non può essere come l’amore per se stessi. Ma se quello che ci è richiesto non fosse di amare l’altro, ma di amare noi stessi, in quanto l’altro non è un altro, ma sono io stesso, allora…sarebbe possibile! Dato che, alla radice, noi siamo ‘UNO’, e solo dopo, diventiamo entità diverse, ognuna di queste entità separate, comprende in sé tutte le altre. E’ come per il corpo umano in cui, studiando una singola cellula, si può arrivare a ricavare informazioni, che riguardano ogni parte dell’organismo. Se così, ogni aiuto che diamo all’altro, diventa un aiuto che diamo a noi stessi, in quanto l’altro comprende anche noi, e viceversa.
Abbiamo detto, che il compito dell’Ebreo è quello di collegarsi con il Creatore e di portare il Creatore a rivelarsi nella Creazione e in noi stessi. Non è possibile arrivare ad una simile completezza, ad una simile unificazione, senza unione. HaShem comprende tutte le anime (Unione Superiore). Il nostro cercare di essere qui, nel nostro mondo inferiore, in uno stato di unione (Ahavàt Israel), ci permette di collegarci all’unione che c’è in alto, ad HaShem. Se qui, invece, c’è divisione, non c’è possibilità di collegarsi con l’Unione Superiore. Per questo, prima della preghiera, noi diciamo: “Io prendo su di me il precetto positivo di ‘Ama il tuo prossimo come te stesso’”. La preghiera è un modo per collegarsi con Ha Shem, e ciò è possibile solo se cerchiamo di collegarci prima con il nostro prossimo.
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