“Behaalotechà”, sette libri nella Torà. Pubblicato il 18 Giugno, 2024

Il nostro servizio ha il potere di sprigionare la forza della santità che appartiene ad ogni creatura, fino a quella più bassa, fino al mondo inanimato. Questa santità, quando viene 'accesa', rivela in se stessa, la forza di influenzare tutto il resto, elevando il mondo intero alla santità, fino al completamento di ciò, nella Gheulà.

 

‘Sette’ libri del Pentateuco

     La parashà Behaalotechà ha una caratteristica, che la rende diversa da ogni altra parashà della Torà: essa comprende dentro di sé tre libri! Come? È scritto nella Ghemarà che “Vaiehì binsoa haaròn“, i versi, cioè, 35 e 36 del capitolo 10 della parashà, sono “un libro che ha un importanza di per sè”. Secondo ciò, il libro Bamidbàr (il quarto libro del Pentateuco) si divide in tre libri: dall’inizio fino alla metà della parashà Behaalotechà – un libro; “Vaiehì binsoa…” – un altro libro; da lì fino alla fine del libro Bamidbàr – un terzo libro. In questo modo, noi abbiamo “sette libri della Torà”.
Considerando questa divisione, il sesto libro (quello dopo “Vaiehì binsoa…”) inizia con argomenti negativi: le lamentele del popolo, le ‘tombe del desiderio’ (punizione contro coloro che furono avidi di cibo), il peccato di Miriam, e, nella parashà successiva, anche il peccato delle spie. Addirittura, ognuna delle parole con cui inizia questo libro, si riferisce a qualcosa di negativo: “Vaiehì” è un espressione usata in situazioni  dolorose; “haàm” (il popolo) è commentato da Rashi come un popolo costituito da malvagi, che si lamentano, lamentele che giunsero come “un torto alle orecchie dell’Eterno”. Tutto ciò, però, risulta in contrasto con l’insegnamento della Torà, che richiede di benedire sulle cose negative che accadono, così come si benedice su quelle positive! E per questo, a differenza dagli altri sei libri, questo libro non ha un nome.
Cosa rappresenta, dunque, questa divisione in sette libri, dato che la divisione è in cinque libri? Perché, poi, questa divisione risulta proprio nella parashà Behaalotechà? Il nesso, all’apparenza, sembra derivare dal fatto, che questa parashà parla dell’accensione dei lumi della menorà, (che simbolizza la Torà, che è luce), che era formata da sette bracci (“Quando farai ardere i lumi, i sette lumi dovranno spandere la luce…”), in rapporto ai sette libri. Non è, però, ancora chiaro ciò che lega, rispetto al contenuto, i sette libri con questa parashà, in particolare.
Per comprendere ciò, è necessario prima approfondire l’insegnamento che noi ricaviamo, dall’accensione della menorà.

“Fino a che la fiamma si innalza da sola”

    A commento del termine usato per ‘accendere’ – ‘behaalotechà‘ –  che ha il significato di ‘innalzare’, Rashi spiega che bisogna estendere l’atto dell’accensione, fino a quando la fiamma  si innalza da sola. L’accensione dei lumi della menorà, allude al servizio spirituale dell’uomo, di illuminare se stesso ed il mondo intero con il “lume della mizvà e la luce della Torà”. Rashi ci insegna, che questa accensione va fatta in modo, che la fiamma si innalzi da sola. Anche se, di fatto, è il sacerdote ad accenderla, dopo di ciò, la fiamma deve illuminare per conto suo, senza più bisogno di alcun aiuto.
Applicato al servizio Divino, il significato della cosa è che, nonostante D-O ci fornisca le forze necessarie, ed anche ci dia l’ “Aronne”, il Leader della generazione, dei genitori e degli insegnanti, ecc., l’essenza vera dell’accensione sta nel momento in cui la “fiamma si innalza da sola”, senza l’aiuto di chi l’accende. Ogni parola, qui, insegna la via da seguire:
“Fiamma” – non solo, cioè, stoppino, recipiente ed olio inanimati, ma anche e, soprattutto, ‘accensione’. Con ciò si intende, che le mizvòt  non  solo vanno compiute nei fatti, ma anche con entusiasmo, in modo che la fiamma illumini e risplenda. E non solo una piccola fiamma, ma una vera e propria vampa di fuoco.
“Si innalza” – un servizio caratterizzato da un progredire costante di grado in grado. E non solo un procedere ed avanzare, ma un innalzarsi costante, verso un livello di servizio più elevato.
“Da sola” – senza, cioè, più aiuto da parte di chi accende, poiché la cosa deve venire a far parte della natura dell’individuo, ed essere  in grado di illuminare per conto proprio.
A questo fine, è necessario annullarsi di fronte a D-O, per essere un recipiente adatto a contenere la luce del “lume della mizvà e luce della Torà”.

Qualcosa di più di un’abitudine che diviene natura.

    Questo servizio deve essere svolto sia riguardo a se stessi, sia riguardo a ciò che circonda.
Riguardo a se stessi: nonostante l’accensione avvenga grazie alle forze che si ricevono da D-O, dai genitori, ecc., la cosa deve penetrare l’individuo al punto che egli ‘si regga sulle proprie gambe’ (‘si innalzi da sola’). Così per lo studio della Torà: all’inizio è il maestro che insegna, ma lo scopo è che, in seguito, non vi sia più bisogno di lui, che l’individuo divenga in grado di sforzarsi e di comprendere con le proprie forze, ed allora, ciò che avrà studiato e compreso sarà così impresso e scolpito in lui, da renderlo perfino capace di apportare egli stesso innovazioni nella comprensione ed interpretazione della Torà.
Anche nello studio individuale si ritrova ciò, come riporta la Ghemarà, secondo cui era uso ripetere ogni cosa studiata per cento volte, affinchè la materia restasse scolpita in chi la studiasse, fino a divenire una parte di lui stesso. Lo stesso vale per il compimento delle mizvòt, ed anche per tutte le altre occupazioni quotidiane (permesse), comprese quelle che non sono collegate direttamente alla Torà ed alle mizvòt: si tratta non solo di compiere lemizvòt, ma di agire in modo che la cosa diventi una parte di sé, “si innalzi da sola”. Così, anche quando si è occupati con le faccende quotidiane, deve diventare naturale che il proprio mangiare, dormire, ecc., siano per amore del Cielo.
Nella “fiamma che si innalza da sola” vi sono due livelli: nel primo, l’individuo abitua il proprio corpo all’adempimento delle mizvòt, in modo da esserne completamente compenetrato, al punto che l’abitudine diviene come una seconda  natura per l’individuo, e ciò in tutti gli atti che egli compie, che saranno allora per amore del Cielo. A questo livello, però, l’abitudine resta ancora un qualcosa, che si viene ad aggiungere alla sua realtà ed alla sua essenza.
Al secondo livello è l’essenza stessa dell’individuo ad essere compenetrata. Ciò è possibile quando si scopre che anche il corpo dell’Ebreo è veramente unito a D-O, e tutta la sua esistenza ed essenza viene da Lui. In questo modo il servizio dell’individuo, fin dall’inizio, non è come una cosa aggiunta, ma come qualcosa che è parte di lui stesso, in tutti i sensi.
Nonostante si debba iniziare dall'”abitudine che diventa natura”, attraverso di ciò scopriamo, anche rispetto al corpo, il  legame essenziale, che lo unisce a D-O, arrivando, così, anche al secondo livello, dove l’unione con il Divino, la Torà e le mizvòt è assoluta.
Anche il servizio che comporta il rapporto con gli altri, deve raggiungere questo livello. L’azione vera e completa nei confronti dell’altro, è quando anch’egli raggiunge questo stesso livello: quello di essere un “fiamma che si innalza da sola”, anche dopo che l’influenza su di lui sarà venuta a cessare.

Tutto il mondo si deve elevare

    Non bisogna, tuttavia, accontentarsi del servizio che uno opera con se stesso e con gli altri. La luce Divina deve penetrare ed influenzare anche la materialità del mondo, trasformandolo in una dimora per D-O. Nonostante il mondo, di per sé, non sia collegato alla santità, e solo in virtù delle forze che D-O ci dà, noi lo riuniamo alla santità, in ogni caso, attraverso le mizvòt noi purifichiamo gli oggetti del mondo, al punto che anch’essi raggiungono un livello di santità, che resta fissato in essi per sempre, nel modo di “si innalza da sola”. E questo fino al punto che l’oggetto stesso, poi, induce un aumento di santità nell’uomo, elevandolo ancora di più.
Per esempio: quando ci vien fatto giurare tenendo in mano un oggetto che ha santità, il tenere questo oggetto dà al giuramento dell’uomo maggiore forza. Nonostante la santità dell’oggetto gli derivi dall’uso, che l’Ebreo ne fa per il servizio, ora è l’oggetto stesso, che fornisce ed aggiunge forze all’uomo (come nell’esempio del giuramento, in cui la parola ‘giurare’, in Ebraico, ha anche, nella sua radice, il significato di ‘saziare’). Così anche riguardo ai sacrifici – il sacrificio che veniva portato dall’uomo, e, con ciò, reso sacro, espiava, poi, per lui, purificandolo.
Anche il servizio nel campo delle cose facoltative, che sono a discrezione dell’uomo, deve essere svolto in modo che tutto sia per amore del Cielo, fino al punto che la materialità stessa “si innalzi da sola”, stimolando, quindi, l’uomo a compiere il proprio servizio. Per esempio: quando si sistema un bossolo per la carità, un libro di preghiere ed un Pentateuco nella camera del bambino in un modo così ben visibile, che, alla fine, essi stessi risveglieranno in lui il desiderio di usarli.
Ed è proprio il servizio svolto in modo che le parti più basse, più materiali della creazione “si innalzino da sole”, ad essere il criterio per giudicare se il nostro servizio è completo e autentico, anche dal lato della realtà dell’uomo e del mondo. Infatti, solo se è completo ed autentico, esso ha il potere di penetrare, in tutti i particolari,  tutti i livelli, fino al più basso, così che anch’esso “si innalzi da solo”.
Per questo il comando di accendere la menorà fino a che “si innalzi da sola” è stato impartito proprio al Sacerdote Aharòn. Di lui, infatti, è detto che “ama le creature e le avvicina alla Torà”. Egli avvicinava anche coloro che erano al  livello solo di semplici “creature”, al livello più basso tra gli uomini, livello al quale l’unica qualità, che poteva essere loro attribuita, era il dato di fatto che D-O li avesse creati. Anch’essi venivano avvicinati da Aharòn alla Torà, così come essa è, nella sua integrità (senza, cioè, abbassare la Torà a compromessi, per renderla più vicina a loro). E, come questo avvicinamento, perfino delle “creature”, riguardò i Figli d’Israele, così esso si protrae, da qui, a tutta la materialità del mondo, fino ad innalzare i livelli più bassi esistenti, e quindi il mondo nella sua interezza.

Cinque e sette nella Torà, nell’uomo e nel mondo

   Le anime di Israele si suddividono in sette tipi – ogni anima secondo l’ “attributo” che costituisce la sua radice (chessed (benevolenza), gvurà (rigore), tifèret (bellezza, armonia), ecc.), così come sette sono i bracci della menorà, che era nel Tempio, e sette i libri della Torà. Esiste, però, anche una suddivisione del popolo d’Israele in cinque tipi e livelli, secondo i cinque livelli nello studio della Torà, che sono rappresentati dai cinque allievi di Rabàn Yochanàn BenZakài, che vengono ricordati nel secondo capitolo delle Massime dei Padri, e ciò, in parallelo ai cinque libri della Torà.
La divisione in cinque esprime soprattutto il servizio nella santità ed il servizio dell’uomo rispetto a se stesso. Il sette, invece, è in relazione anche al servizio rispetto al mondo. Il cinque, quindi, è collegato ai Figli d’Israele, che studiano la Torà e si occupano, principalmente, della santità, mentre il sette comprende tutti i livelli, anche quelli più bassi.
Anche la suddivisione della Torà rispecchia tutto ciò: la suddivisione principale è quella in cinque, poiché nella santità vi sono cinque livelli. Dato che, però, il fine della Torà è quello di agire anche nel mondo materiale, che è stato creato in sette giorni, esiste anche una suddivisione in sette libri, che comprendono un sesto e settimo livello, che sono l’origine dell’influenza sul mondo.
Per questo, i primi cinque Libri sono collegati essenzialmente alla santità: la creazione del mondo, i nomi dei Figli d’Israele, l’Eterno si rivolse a Moshè, il censimento dei Figli d’Israele nel deserto, ‘ogni volta che l’Arca si muoveva’ (vaiehì binsoa haaròn). Dopo di che, il sesto libro inizia con argomenti negativi (ed anche il settimo, Devarìm, che contiene parole di rimprovero per Israele). Questo numero consente la possibilità della discesa nel mondo, e per questo inizia con argomenti, che rispecchiano una discesa.

Non è come si pensa                                                        
Va sottolineato, che il sesto libro e tutta la suddivisione in sette libri sono parte della parashà “Behaalotechà ethaneròt” – il che ci viene ad insegnare che tutta la realtà delle cose inferiori ed indesiderabili è solo allo scopo di essere parte di “Quando farai ardere i lumi” (“Behaalotechà et haneròt“), per poter agire anche su ciò che è più basso ed elevarlo alla santità, per mezzo della teshuvà (pentimento, ritorno), fino alla trasformazione di tutta la realtà ad una condizione di “fiamma che si innalza da sola”. Essendo questo tutto lo scopo, anche il fatto di  lamentarsi del popolo d’Israele è scritto nella Torà con l’aggiunta di una כ (caf), che fa intendere che essi furono come se si lamentassero, e non si lamentassero veramente, poiché la lamentela fu solo una forma esteriore, e solo per raggiungere una elevazione successiva. La forza per un simile servizio deriva dal quinto libro: “Sorgi, o Eterno, possano i Tuoi nemici disperdersi…Torna, o Signore, con la miriade delle tribù d’Israele”.
Anche nella parashà delle spie, che si inizia a leggere a Minchà di questo Shabàt, vediamo qualcosa di simile: l’haftarà della parashà racconta proprio dell’invio di spie da parte di Giosuè, una missione che ebbe successo, e viene ad insegnarci che anche il peccato delle spie non fu che una discesa temporanea ed esteriore, e solo al fine di giungere, alla fine, al completo successo della spedizione delle spie da parte di Giosuè. Infatti Giosuè, che è paragonato alla luna, che riceve la sua luce dal sole, imparò ciò da Moshè (il sole). Dopo di che, però, la luce divenne sua, la luce della luna stessa, nel modo di una “fiamma che si innalza da sola”.  Per questo, anche ciò che viene detto delle spie, che “essi non avranno parte nel mondo futuro”, va inteso a loro vantaggio, nel senso che essi furono così elevati, che neppure il ‘mondo futuro’ è sufficiente ad essere per loro una ricompensa!
Tutto ciò riguarda anche la nostra generazione, poiché proprio essa, la generazione che è paragonata al ‘tallone’, e addirittura ad un livello ancora più basso del tallone, la più inferiore fra tutte le generazioni che l’hanno preceduta, le cui qualità non le derivano altro che dalle generazioni precedenti, proprio essa è “la fiamma che si innalza da sola”, l’ultima generazione dell’esilio e la prima della Gheulà (Redenzione), la generazione che porterà a compimento lo scopo finale, la Gheulà per tutte le generazioni! Ed in particolare, quando il Leader della generazione, che è l’Aharòn della generazione, mostra il suo amore per ciascuno, anche per coloro che sono al livello di ‘creature’, diffondendo le ‘sorgenti’ in ogni luogo. Ed in particolare oggi, quando non esiste più ‘l’ignorante’, poiché ognuno ha una qualche conoscenza di Torà. Ed ecco, il Rebbe, Leader della generazione, ha annunciato che ‘persino i bottoni sono stati ormai lucidati’ (ossia, anche i particolari della preparazione alla Gheulà sono stati completati), e che resta solamente da accogliere il nostro Giusto Moshiach con gioia e vitalità.

(Da un discorso di Shabàt parashà Behaalotechà, 19 Sivàn 5751)

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