Il numero tre: la vera pace. Pubblicato il 29 Maggio, 2024

Il numero uno rappresenta l'espressione più semplice del concetto di unità, eppure, è il numero tre a rappresentare la vera unità, un'unità che comprende in sè, inevitabilmente, la condizione per la vera pace.  

 

  Il numero tre è associato al concetto di pace. Il numero uno si riferisce ad uno stato di unità, che è al di sopra della divisione. Per questo, nel racconto della Creazione, come spiegano i nostri Saggi, la Torà si esprime con le parole “un giorno”, e non “il primo giorno”, per enfatizzare come allora “D-O fosse unico nel Suo mondo”. Il numero due riflette uno stato di divisione, l’opposto dell’unità. Per questo, i nostri Saggi dicono, che la divisione fu creata il secondo giorno, riguardo al quale l’espressione “E D-O vide che era buono” non è menzionata. Il numero tre si riferisce alla capacità di portare unità nel contesto della divisione, che il numero due reca con sé.

  Questo tipo di unità è di un livello superiore. L’unità associata al numero uno, si riferisce all’unità che esiste prima dell’esistenza individuale (cosa che permette la divisione). Essa non rappresenta, quindi, un’unità completa, poiché non è noto cosa accadrà, dopo che delle entità avranno acquisito una loro propria esistenza individuale. Il numero tre, invece, che rappresenta l’unità nel contesto della divisione, è un’espressione di vera unità, e perciò, riguardo al terzo giorno della Creazione, l’affermazione “E D-O vide che era buono” viene ripetuta due volte.

  Un esemplificazione di questo concetto può essere trovata nel principio: ‘Quando due passaggi della Torà si contraddicono l’un l’altro, il significato può essere determinato da un terzo passaggio, che li riconcilia.’ Non si intende con ciò, che un terzo brano venga a supportare uno dei due precedenti, facendo pendere la bilancia in suo favore, ma piuttosto che esso viene a riconciliare i due, facendo emergere una nuova prospettiva, che risulta accettabile da entrambe le posizioni. Questi concetti hanno un loro parallelo, anche nel nostro servizio Divino.

   D-O essenzialmente è Uno, e questa unità venne rivelata nel primo giorno della Creazione. Egli, però,  ebbe desiderio di avere “una dimora nei mondi inferiori”, per cui creò un mondo (la parola ebraica per “mondo” è collegata al significato di “nascosto”), che all’apparenza sembra separato da D-O (la divisione simbolizzata dal secondo giorno). Lo scopo di una simile creazione fu quello di far diventare l’Ebreo “un socio di D-O nella Creazione” e di stabilire un’unità fra D-O ed il creato. Questa unità non avviene attraverso un annullamento del mondo, nella sua esistenza materiale, ma attraverso un suo fondersi, pur rimanendo così com’è, con la Divinità. Ciò rappresenta una vera unità, l’unità espressa dal terzo giorno. I nostri Saggi associano il contributo apportato dal terzo giorno con il detto: “Buono per i cieli e buono per le creature”. Questa unione mette insieme “i cieli” e “le creature”, fondendoli in una singola unità.

    Sulla base di quanto detto, noi possiamo apprezzare la connessione fra la Torà ed il numero tre. I nostri Saggi dicono: “L’intera Torà fu data solo per stabilire la pace nel mondo”, e cioè, pace ed unità fra il mondo e D-O. Prima del Matàn Torà, vi era un decreto, che separava i più elevati mondi spirituali dal nostro mondo fisico. Col Matàn Torà, D-O annullò questo decreto. Egli “discese sul Monte Sinai” e diede agli Ebrei la possibilità di elevare il mondo fisico e di impartire santità ad oggetti materiali. Prima del Matàn Torà, il posto della Torà era nei mondi spirituali. Dopo il Matàn Torà, la Torà “non è nei cieli”, ma piuttosto ha il suo posto permanente in questo mondo (e le decisioni halachiche vengono prese dall’uomo).

  Su questa base noi possiamo comprendere perché il Matàn Torà non abbia avuto luogo immediatamente dopo l’uscita dall’Egitto, ma fu preceduto dal conto dell’Omer. Questo servizio fu necessario, in quanto l’intento del Matàn Torà era quello di fondare la Torà in questo mondo in un modo permanente, stabilendo, cioè, la pace (nel senso più completo della parola, senza che altre entità sacrifichino le proprie qualità, come spiegato precedentemente) tra il regno spirituale e quello fisico. L’uscita dall’Egitto non era sufficiente. Nonostante “il Re dei re, il Santo, Benedetto Egli sia, si fosse rivelato loro”, questa fu una rivelazione dall’alto, che non permeò la natura del mondo stesso, e fu, quindi, solo di natura temporanea. Il mondo stesso rimase così com’era, un’entità separata dalla rivelazione Divina. Solo dopo il servizio nel mondo stesso – anche se questo avvenne a seguito di un risveglio dall’alto, associato all’esodo – il mondo fu pronto a ricevere la Torà, in modo da  poter essere interiorizzata ed avere, quindi, un effetto permanente sul mondo. È questo il contributo dei giorni del conto dell’Omer, che collegano Pèsach al Matàn Torà.

     L’offerta dell’Omer era costituita da orzo, che viene descritto dai nostri Saggi come “cibo per animali”. Questo indica che il servizio relativo a questo periodo è rivolto alla purificazione delle qualità emozionali dell’’anima animale’. Nonostante questo servizio non raggiunga l’elevatezza  della rivelazione del “Re dei re, il Santo Benedetto Egli sia”, è proprio esso che permette di arrivare al Matàn Torà. Inoltre, proprio perché questa rivelazione è preceduta dal servizio dell’Ebreo, essa può essere interiorizzata fino al punto di diventare una parte permanente del suo essere.

   Durante il conto dell’Omer, l’halachà impone un’atmosfera di mezzo-lutto, associata alla morte degli allievi di Rabbi Akìva. Il Talmùd spiega che questi allievi morirono, perché non dimostrarono un appropriato rispetto l’uno verso l’altro. Se la conseguenza di ciò riguarda anche noi ancora oggi, è perché da qui noi riceviamo un importante insegnamento: l’osservare queste norme di lutto ci deve portare a correggere, tramite un accrescimento della nostra “ahavàt Israel”, ciò che fu causa della tragedia: la mancanza di rispetto dell’altro.

    Perché una persona è portata a mancare di rispetto verso il prossimo? La cosa nasce dal fatto, che D-O ha creato gli uomini con un processo di pensiero differente per ognuno di essi. L’intenzione di D-O non era, però, che queste differenze causassero divisione o conflitto. Il Suo intento fu che, là dove vi è la possibilità per la differenza di esistere, si stabilisca un più elevato grado di pace e di unità. Quando persone con differenti opinioni collaborano, esse sviluppano una moltitudine di prospettive differenti, che portano ad una soluzione migliore e più chiara. Per raggiungere un simile risultato, bisogna che ciascuno superi la propria tendenza naturale ad aderire al proprio punto di vista, per poter considerare le cose da un’altra prospettiva, dimostrando rispetto per le altre persone.

   Questo è il servizio appropriato durante il conto dell’Omer, ed esso richiede che la persona lavori su se stessa, per cambiare la propria natura, il proprio intelletto e le proprie emozioni, che altrimenti potrebbero portarla a mancare di rispetto verso gli altri, come accadde per gli allievi di Rabbi Akìva. L’uomo deve raffinare e sviluppare queste qualità, fino al punto di essere in grado di trarre e riconoscere il vantaggio, che può venire dalla varietà delle differenti prospettive degli altri. Anche là dove un conflitto ed un disaccordo si fossero già creati, deve essere fatto lo sforzo per correggere la situazione protendendosi nella direzione della pace. Questo approccio porterà, alla fine, ad un livello di pace più elevato di quello, che esisteva prima del conflitto. È questo il servizio, che portò il Popolo d’Israele ad accamparsi davanti al Monte Sinai “come un solo uomo, con un solo cuore” ed a meritare così di ricevere la Torà.

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