Imparare ad elevarsi al di sopra del mondo, per elevare il mondo Pubblicato il 7 Maggio, 2024
Lo scopo del Matàn Torà sul Monte Sinai non fu quello di creare uno stato di completo distacco degli Ebrei dal mondo fisico. Essi avrebbero dovuto, al contrario, installarsi nel paese, vivere una vita naturale e, con il potere e la forza della Torà, sopraffare i limiti della natura.
Una contraddizione apparente
La parashà Behàr inizia parlando delle leggi sulla Shemità (l’anno Sabbatico). Si tratta qui di precetti che gli Ebrei dovevano iniziare ad osservare soltanto dopo essersi insediati nella Terra d’Israele, dove avrebbero condotto uno stile di vita naturale, opposto a quello miracoloso di cui avevano goduto nel deserto. La parashà prosegue poi descrivendo una situazione inquietante, che può risultare dalla conduzione di un’esistenza naturale: un Ebreo può impoverirsi e, a causa di ciò, che D-O non permetta, essere venduto ad un membro di un culto idolatrico. Eppure, il nome della parashà, Behàr, “sulla montagna”, sembra contraddire quanto sopra. Ciò che rappresenta il Monte Sinai, infatti, è il più supremo dei livelli, il luogo dove D-O ha dato la Torà al Popolo Ebraico, il luogo dove gli Ebrei furono elevati ad un livello che trascende completamente quello mondano. Se quindi il nome di una parashà ne caratterizza il contenuto, come può Behàr comprendere l’eventualità di uno stato così degradato?
Nessuno ha dominio sull’Ebreo
Lo scopo del Matàn Torà sul Monte Sinai non fu quello di creare uno stato di completo distacco degli Ebrei dal mondo fisico. Essi avrebbero dovuto, al contrario, installarsi nel paese, vivere una vita naturale e, con il potere e la forza della Torà, sopraffare i limiti della natura. Per questo, quando la Torà ci comanda di lasciar riposare la terra durante l’anno Sabbatico, l’Ebreo lo farà, nonostante il fatto che non si debba far affidamento sui miracoli. L’Ebreo è in grado di fare ciò, poiché sa che, nonostante possano sorgere domande come “cosa mangeremo?”, la Torà gli dà la forza di superare i limiti della natura, così che “D-O decreterà la Sua benedizione nel sesto anno” (Vaikra 25:21). Di conseguenza, ancor prima che l’anno Sabbatico abbia inizio, l’Ebreo vede che egli ha “un raccolto sufficiente per tre anni”. Ciò è simile alla condizione di chi abbia come proprio padrone un pagano. La persona potrebbe pensare in quel caso che, siccome il suo padrone compie ogni sorta di azioni proibite e degradanti, ed essendo egli, secondo la Torà, obbligato a servirlo, sia suo dovere adeguarsi e comportarsi allo stesso modo. La Torà, tuttavia, lo diffida da un simile comportamento. La ragione è che, riguardo a ciò che concerne l’Ebraismo – “Sinai” – nessuno ha dominio su un Ebreo.
La ‘quarta corona’
Questo concetto lo si trova espresso nel detto di Rabbi Shimon bar Yochài: “Vi sono tre corone: la corona della Torà, la corona del sacerdozio e la corona del regno; ma su tutte eccelle la corona del buon nome” (Pirkèi Avòt 4:13). Come spiegato da diversi commentatori, la “corona del buon nome” si riferisce al buon nome che una persona acquisisce attraverso le proprie buone azioni. A prima vista, questo commento attribuito a una cosa detta proprio da Rabbi Shimon, sembra strano. Rabbi Shimon, infatti, si è dedicato interamente alla Torà. Di lui è detto “la Torà era la sua occupazione”, dato che per lui lo studio della Torà rivestiva un’importanza suprema. Come ha potuto quindi egli dire che la corona del buon nome eccelle su quella della Torà? Egli disse ciò, poiché lo scopo ultimo della Torà è quello di ispirare buone azioni, azioni che abbiano come risultato la santificazione del mondo. Per questo, il risultato dello studio della Torà, “la corona del buon nome”, è la corona che “eccelle su tutte”.
L’altruismo di Rabbi Shimon bar Yochài
Se ciò è vero, come è possibile che Rabbi Shimon si sia dedicato allo studio della Torà a un grado tale da impedirgli di concentrarsi più pienamente nel compimento delle buone azioni? È un assioma che “chi è imprigionato non può liberare se stesso”. Se gli Ebrei dovessero compiere buone azioni rimanendo completamente immersi nel mondo, essi non sarebbero in grado di elevare il mondo al di là dei suoi limiti. Essi devono quindi essere in grado di elevare se stessi al di sopra del mondo. Solo allora essi riusciranno ad elevare anche il mondo. Ciò è raggiunto, fra tutti gli Ebrei, da quegli individui per i quali lo studio della Torà è pressoché la loro unica occupazione. Lo studio della Torà di Rabbi Shimon era il massimo dell’altruismo. Egli fu pronto a rinunciare alla corona più grande di tutte per servire da esempio ad altri Ebrei, mostrando loro come anch’essi possono trascendere il mondo, tramite lo studio della Torà, e con ciò fare sì che il “Sinai” discenda nel mondo naturale.
(Likutèi Sichòt, vol. 17, pag. 303-307)