Le difficoltà rafforzano Pubblicato il 28 Luglio, 2024

Il popolo d'Israele è paragonato ad un ramo forte e resistente, capace di superare ogni ostacolo, grazie alle forze nascoste che esso è in grado di rivelare dentro di sè, quando è fronteggiato dalle difficoltà e dalle prove dell'esilio.  

 

ramo spezzato“Moshè parlò ai capi delle tribù”
Le tribù d’Israele vengono chiamate dalla Torà con due nomi differenti: shvatìm e mattòt. I termini shevet e mattè, nel loro significato letterale, si riferiscono entrambi ai rami dell’albero, con la differenza che shevet indica il ramo tenero, quando esso è ancora collegato all’albero, mentre mattè indica un bastone forte e rigido, che è costituito dal ramo, dopo che esso è stato reciso dalla pianta. Questi nomi esprimono due diverse condizioni del popolo d’Israele: l”albero’ dal quale sono prese le anime di Israele, è la loro origine Divina, il Santo, benedetto Egli sia. Quando il collegamento delle anime con D-O è sentito e riconosciuto in modo manifesto, i Figli d’Israele sono chiamati shvatìm, quando, invece, esso è latente e nascosto, al punto da non essere percepito e da non sembrare addirittura esistente, essi sono chiamati mattòt.

Dopo la discesa
In generale, la prima condizione (shevet) riguarda l’anima, che si trova nello stato precedente alla sua discesa in questo mondo, prima del suo rivestirsi di un corpo fisico. Essa risiede allora in un mondo spirituale ed elevato, attaccata completamente a D-O, così come il ramo è attaccato all’albero. Dopo la sua discesa in questo mondo ed il suo rivestirsi di un corpo fisico e materiale, l’anima è, invece, nella condizione di mattè, condizione nella quale essa non percepisce più in modo sensibile e manifesto il proprio legame con l’origine Divina, con D-O. Essa può sentirsi addirittura, che D-O non permetta, completamente separata. Il corpo fisico e gli istinti materiali combattono contro l’anima, indebolendo il suo legame con D-O. In questo senso, essa è paragonabile al ramo che è staccato dall’albero.

Forza e fermezza
Pur essendo shevet un ramo attaccato all’albero, esso è, tuttavia, un ramo ancora tenero e debole. Mattè, invece, è un ramo forte e resistente. Ciò significa che, quando il ramo è attaccato all’albero, esso è ancora tenero e debole e, proprio attraverso il suo distacco dalla pianta, apparentemente, esso arriva ad una forza incomparabilmente maggiore di quella che possedeva nel suo stato precedente. Questo è, in essenza, il significato della discesa dell’anima in questo mondo. Proprio attraverso la sua discesa e l’allontanamento apparente dalla sua origine Divina, l’anima scopre una forza, che era nascosta dentro di sé, molto più grande, ed arriva, così, ad un’elevazione, che la porta ad un grado superiore. Le difficoltà che ci si trova ad affrontare in questo mondo e le tentazioni da parte dell”istinto del male’ (yèzer harà), risvegliano, alla fin dei conti, il mattè che è nella nostra anima, la forza e la determinatezza di restare legati a D-O, nonostante qualsiasi difficoltà. In questo modo, l’anima arriva ad un legame infinitamente più profondo con D-O.

Lo scopo della distruzione
Questa distinzione di shevet e mattè esiste anche qui, in basso. Al tempo in cui esisteva il Tempio e la santità Divina splendeva in modo manifesto, si era nella condizione di shevet. Dopo la distruzione del Tempio, invece, quando al popolo d’Israele fu imposto il duro esilio, nel quale imperversa un’oscurità doppia e raddoppiata, il popolo è paragonabile ad un mattè. In questo periodo, infatti, esso deve scoprire in sé una forza interiore tale, da permettergli di resistere con forza davanti agli ostacoli ed alle prove dell’esilio. Un’allusione a ciò la si può vedere nel fatto che la parashà Mattòt viene letta durante le ‘tre settimane’ (il periodo di lutto che va dal 17 di Tamùz al 9 di Av, data nella quale il Tempio fu distrutto). Ciò esprime il significato interiore ed autentico della distruzione e dell’esilio: scoprire il mattè che c’è nell’anima ed arrivare alla rivelazione completa di D-O, nella Gheulà vera e completa.

(Likutei Sichòt, vol. 18 pag. 342) 

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