Non è l’uomo ad essere il padrone del proprio corpo Pubblicato il 5 Settembre, 2024
Il corpo e l’anima dell’uomo non sono stati dati in possesso dell’uomo. Essi non sono che un pegno ed in quanto tale, l’uomo deve preservare il suo corpo e la sua vita.
“Secondo due testimoni” (Devarìm 17:6)
Nella parashà Shofetìm compare il comando: “Secondo due testimoni, o tre testimoni dovrà morire chi è condannato a morte”. Da qui, i nostri Saggi apprendono che solo due testimoni possono portare alla condanna a morte o alla punizione della fustigazione. Persino l’ammissione del peccatore stesso non è sufficiente a comminargli simili punizioni. E così stabilisce il Rambam: “La Scrittura decreta che il tribunale non condanna a morte o alla flagellazione un uomo, in seguito ad una sua ammissione di colpa, ma in base a due testimoni.” Questa halachà si applica però solo nelle cause penali, che comportano la pena di morte o la fustigazione, mentre per quel che riguarda le cause civili, l’ammissione di colpa della persona ha la massima importanza: “L’ammissione di colpa dell’accusato vale come cento testimoni”.
Il corpo come pegno
Nonostante il Rambam definisca questa halachà un “decreto della Scrittura”, una di quelle leggi della Torà che non hanno alcuna spiegazione logica, i commentatori del Rambam le danno una certa spiegazione. Secondo loro, la spiegazione sta nel fatto che la persona è padrona del suo denaro, e per questo la sua ammissione di colpa può obbligarlo a versare un pagamento; la persona non e però padrona del proprio corpo, e per questo la sua ammissione di colpa non può portarlo alla condanna alla fustigazione o alla condanna a morte. Il corpo e l’anima dell’uomo non sono stati dati in possesso dell’uomo. Essi non sono che un pegno ed in quanto tale, l’uomo deve preservare il suo corpo e la sua vita. Per questo, fu stabilita la halachà che determina che “all’uomo non è assolutamente permesso, di danneggiare il proprio corpo”. Il corpo non appartiene all’uomo ma a D-O, e l’uomo non ha il diritto di recare danno a qualcosa che non gli appartiene o di imporgli una punizione.
È stato dato il permesso
Questa differenza fra il corpo ed i possedimenti materiali richiede un chiarimento. Non appartiene forse tutto il mondo a D-O, com’è scritto: “A D-O appartengono la terra e tutto quanto essa contiene”? Anche le ricchezze dell’uomo appartengono di fatto a D-O, come dice D-O stesso: “Mio è l’argento e mio è l’oro”. Se così, perché si fa differenza fra il corpo dell’uomo ed i suoi possedimenti materiali? La risposta é che vi è una differenza fra ciò che D-O permette all’uomo riguardo al suo corpo e riguardo al suo denaro. Nonostante tutto appartenga a D-O, il denaro Egli lo ha dato all’uomo in modo da renderlo padrone di esso e autorizzato a decidere cosa farne. Il corpo, invece, D-O non lo ha dato in possesso all’uomo, ma glielo ha affidato solo in pegno, senza l’autorizzazione di farne ciò che vuole. Per questo, quindi, egli non può neppure imporgli una punizione stabilita per una sua ammissione di colpa.
Non c’è altro all’infuori di Lui
Ciononostante, anche in questioni di possedimenti, o denaro, l’uomo deve riconoscere il dominio assoluto che D-O ha su tutta la realtà. Si racconta di uno dei grandi chassidìm dell’Admor HaZaken, l’autore del Tanya, che era un importante mercante di legname. Una volta, mentre era occupato a fare il bilancio della propria azienda, quando arrivò alla voce “totale”, scrisse semplicemente: “Non c’è altro all’infuori di Lui”. Questa fu la risposta sincera del chassìd, che anche quando era occupato nei suoi affari e nella gestione della propria contabilità, il “totale” risultava sempre e comunque: “Non c’è altro all’infuori di Lui”. Con questa consapevolezza, noi riveliamo qual’è la verità della creazione e prepariamo il mondo alla realizzazione del suo scopo, quando tutti vedranno con i propri occhi che “Non c’è altro all’infuori di Lui”.
(Da Likutèi Sichòt, vol. 34, pag. 106)