Ogni Ebreo è uno “shalìach” Pubblicato il 22 Novembre, 2024

Lo scopo della nostra esistenza è una missione preziosa, che D-O ha affidato alle nostre anime, nella loro discesa qui, nel mondo materiale in un corpo fisico. La parashà di Chayèi Sarà ci offre l'opportunità di comprendere il contenuto e l'eccezionalità di questa missione.

 

       La parashà di Chayèi Sarà si occupa in gran parte di una shlichùt (missione): Avraham Avìnu, che affida ad Elièzer, suo servitore, il compito di trovare una sposa per suo figlio Izchak, e l’esecuzione da parte di Elièzer di questa missione. La parashà seguente, poi, Toldòt, descrive la discendenza di Izchak e Rivka, rivelando così lo scopo di questa missione. Il prolungarsi così esteso e dettagliato della Torà nella descrizione di questa missione, ci permette di capire, che essa non riguarda solo un fatto storico accaduto allora, ma contiene piuttosto un insegnamento destinato a tutti i tempi. Perché questa descrizione così lunga? Perché la Torà dà tanta attenzione alla fase preparatoria della missione, alla contrattazione da essa richiesta, a tutti i particolari del suo svolgimento, mentre dedica così poco spazio all’obiettivo stesso della missione: il matrimonio di Izchak e Rivka?

      La missione di Elièzer, che doveva portare al matrimonio di Izchak e Rivka, rispecchia, in microcosmo, la missione di ogni Ebreo di stabilire una dimora per D-O nei mondi inferiori. Rivka era come “una rosa fra i rovi”: essa, infatti, viveva in Padàn Aràm, luogo di grande impurità, con i malvagi Betuèl e Lavàn. La missione di Elièzer consisteva nel portarla via da lì e consegnarla ad Izchak, per divenirgli sposa. Ciò riflette il nostro servizio di raffinamento della natura materiale del mondo, per trasformarla in una dimora per D-O. Il primo matrimonio Ebraico, quello fra Izchak e Rivka, rappresenta, di fatto, la fondazione di una dimora per D-O in questo mondo: una casa Ebraica. È essa che permette l’adempimento del comando Divino: “Prolificate e moltiplicatevi, riempite la terra e conquistatela”.

      Dal momento che la missione di Elièzer riflette un obiettivo così generale, la Torà ne riporta tutti i dettagli, affinché l’Ebreo possa derivarne un insegnamento, che lo guidi nel suo compito di stabilire una dimora per D-O in questo mondo.  Questo compito comporta due aspetti. 1) Il preparare una dimora, nel senso che D-O si possa rivelare apertamente, in questo mondo, così come una persona, a casa sua, rivela la sua vera natura, senza veli e senza inibizioni. 2) Dovendo essere questa dimora, proprio nel nostro basso mondo, materiale e limitato, essa dovrà relazionarsi ad esso ed  alle sue creature al loro livello. Non solo, quindi, il Divino si rivelerà dall’alto verso il basso, ma il mondo stesso, così com’è, nel suo contesto limitato e materiale, vedrà e riconoscerà il Divino. Nonostante il mondo sia stato creato in modo da non permettere di riconoscere ed apprezzare il Divino, che si nasconde nella natura, questa stessa natura verrà cambiata al punto tale, da permetterle  di divenire una dimora per D-O, nel contesto stesso della sua esistenza.

     Si tratta qui di un lavoro in due direzioni: se, da una parte, la rivelazione Divina si attuerà dall’alto, la preparazione perché ciò avvenga deve farsi dal basso. Una dimora per D-O in questo mondo non può essere stabilita da D-O, unicamente attraverso una rivelazione dall’alto. Essa si deve realizzare, piuttosto, attraverso il servizio svolto dal Popolo Ebraico, che agisce come shalìach (emissario) di D-O in questo mondo. Dato, però, che gli Ebrei sono creature che appartengono a questo mondo, la loro attività, in quanto emissari, non è solo una preparazione ed un mezzo per stabilire questa dimora, ma ne è essa stessa già un riflesso. Inoltre, per trasformare il mondo in una dimora per D-O, un luogo, cioè, per la rivelazione Divina, è necessario che il Popolo Ebraico riconosca di essere un semplice emissario. L’Ebreo deve essere consapevole, che è stato il potere di D-O ad investirlo di questa missione e che non è la sua capacità individuale a permettere il successo della missione.

    Nella descrizione dell’investitura di Elièzer alla carica di emissario, questo tema risulta ben chiaro: Avraham Avìnu incarica Elièzer, vincolandolo con un giuramento, ed Elièzer agisce con il potere che gli viene da chi lo ha investito. La figura dell’emissario può ricevere tre differenti definizioni. 1) L’emissario ha una sua identità indipendente e le azioni da lui compiute gli vengono riconosciute come sue. Semplicemente, attraverso il compimento di queste azioni, egli adempie al suo incarico. 2) Quando l’emissario compie un’azione, questa viene considerata come se fosse stata compiuta da chi l’ha incaricato della missione. Sebbene nelle altre questioni, che lo riguardano personalmente, l’emissario abbia una sua identità indipendente, nello svolgimento della sua missione, è colui che lo ha incaricato ad essere responsabile di tutte le azioni dell’emissario. 3) L’emissario è considerato un estensione di colui, che l’ha incaricato. “Uno shalìach è considerato come se fosse la persona stessa che l’ha incaricato”.

     La relazione tra un Ebreo (l’emissario) e D-O (Colui che l’ha incaricato) trova il suo riscontro nel terzo tipo di definizione. La capacità dell’Ebreo di stabilire una dimora per  D-O in questo mondo è resa possibile dal fatto che egli è “una  parte  di  D-O”, e cioè, uguale a colui che l’ha incaricato. Perché questa qualità si riveli, tuttavia, è richiesto un lavoro; una persona deve lavorare su se stessa, per andare oltre al suo io individuale e identificarsi con la volontà Divina. Non è sufficiente che egli esegua un comando Divino, mantenendo, però, un’identità separata ed individuale. Egli deve, invece, abbandonarsi completamente a D-O, in ogni aspetto della sua personalità, addirittura in quelli che riguardano attività puramente fisiche. Per questo, la nomina dello shalìach, da parte di chi lo manda, è così importante. La nomina di emissari implica il fatto che la persona che li incarica, dia loro il potere.

      Nel nostro caso, nel compimento, cioè, della missione che  D-O ci ha affidato, questo concetto fonde due opposti. Nonostante un Ebreo si senta un’entità indipendente, un’anima ed un corpo, fornito di una propria personalità e debba tener conto di aver ricevuto capacità uniche, per raggiungere determinati obiettivi nel servizio Divino, tuttavia, nel compimento di questo servizio, la sua personalità si deve completamente annullare, al punto da divenire tutt’uno con D-O, che l’ha nominato Suo emissario. Nella nostra missione, noi dobbiamo, cioè, sì usare tutte le nostre capacità e qualità individuali (volontà e piacere, intelletto ed emozioni) nel modo più completo, ma, nello stesso tempo, dobbiamo abbandonarci interamente a D-O, concentrando tutte le nostre forze su un unico obiettivo: compiere la Sua volontà. Il dedicare tutto il nostro potenziale a questa missione, con un senso di totale abbandono e annullamento, ci permette di purificare il nostro mondo, rendendolo una dimora per D-O. Il valore numerico (ghemàtria) della parola ‘shalìach’ più dieci (che rappresentano le dieci facoltà dell’anima) è numericamente equivalente alla parola ‘Moshiach’. Quando una persona dedica tutti e dieci le facoltà della sua anima all’adempimento della missione di fare di questo mondo una dimora per D-O, egli rivela quella scintilla di Moshiach, che possiede nella sua anima. Ognuno possiede una scintilla di Moshiach, che rappresenta l’essenza del suo essere, quel livello dell’anima (yechìda), che trascende tutte le distinzioni. Attraverso la rivelazione dell’aspetto di Moshiach, che appartiene ad ogni individuo, si affretta di fatto la rivelazione vera e propria di Moshiach, come allude il Rambam, nella sua affermazione che, con una mizvà, ogni Ebreo ha la possibilità di far inclinare la bilancia dell’intero mondo e portare la completa Redenzione.
(Shabàt parashà di Chayèi Sarà, 27 MarCheshvàn 5750)

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