Qual’è veramente il rapporto fra la shemità e il Monte Sinai? Pubblicato il 22 Maggio, 2024

Nel settimo anno, l'anno di shemità, la Torà richiede all'Ebreo di affidarsi completamente a D-O e al Suo aiuto soprannaturale.

“E riposerà la terra uno Shabàt per D-O” (Vaikrà 25, 2)

La parashà Behàr inizia con le parole: “E D-O parlò a Moshè al monte Sinai… E riposerà la terra uno Shabàt per D-O” A proposito di questo verso, Rashi pone la sua nota domanda: “Qual è il rapporto fra la shemità e il monte Sinai? Non sono stati dati forse tutti i precetti sul monte Sinai?” Ed egli risponde: “Come per quanto riguarda la shemità, le sue norme generali e particolari, insieme ai suoi dettagli furono promulgati dal Sinai, così anche per quanto riguarda tutti i precetti, le loro norme generali assieme ai loro dettagli furono promulgati dal Sinai”. Il precetto della shemità offre quindi un insegnamento valido per tutti i precetti: noi dobbiamo sapere che come il precetto della shemità, con tutti i particolari che lo riguardano, sono stati trasmessi a Moshè sul Sinai, così anche tutti i precetti, con tutti i loro particolari e i più piccoli dettagli furono trasmessi a Moshè sul Sinai. Se la Torà ha scelto proprio il precetto della shemità come insegnamento che riguarda anche tutti gli altri precetti, è evidente che questo precetto riflette un approccio generale dell’Ebraismo verso la vita.

La ciclicità ebraica
Di fatto, nel precetto della shemità si riflette una certa ciclicità, molto importante per l’Ebreo. Da un lato, la Torà dice all’Ebreo: “Per sei anni seminerai il tuo campo e per sei anni poterai la tua vigna” (Vaikrà 25:3). La Torà istruisce quindi l’Ebreo a vivere nell’ambito naturale del mondo e a mantenersi proprio in questa via. La Torà non dice all’Ebreo di staccarsi dalle cose del mondo e di occuparsi solo della Torà e della preghiera, ma gli comanda piuttosto di agire e di operare proprio nell’ambito della vita di tutti i giorni. Allo stesso tempo, la Torà informa l’Ebreo che, una volta ogni sette anni, egli deve staccarsi dalla vita quotidiana del lavoro della terra e fare un “anno sabatico”, da dedicare essenzialmente alle cose spirituali: alla Torà, alla preghiera e al servizio Divino. Chiede allora l’Ebreo: “Cosa mangeremo nel settimo anno, se non semineremo e non raccoglieremo il nostro prodotto?” (Vaikrà 25, 20). Risponde la Torà: “Io decreterò la Mia benedizione a vostro favore nel sesto anno ed essa produrrà un raccolto sufficiente per tre anni.” (Vaikrà 25, 21). Qui la Torà richiede all’Ebreo di affidarsi completamente a D-O e al Suo aiuto soprannaturale.

L’Ebraismo combina gli opposti
A prima vista, le cose sembrano essere in totale contraddizione: come è possibile da un lato predicare di agire secondo l’andamento naturale, nell’ambito dei limiti del mondo materiale e delle sue leggi e, allo stesso tempo, pretendere che l’uomo si astenga da qualsiasi opera, affidandosi completamente al soprannaturale?! Ma in effetti è proprio questa l’esatta volontà della Torà, combinare insieme questi due approcci: da un lato fare tutto ciò che è richiesto per vie naturali e allo stesso tempo credere nell’aiuto di D-O, che trascende le vie della natura. La ciclicità dei sei anni di lavoro seguiti dall’anno della shemità, imprime questo approccio nell’animo dell’Ebreo. I sei anni di lavoro gli insegnano che il suo scopo è proprio quello di trovarsi nell’ambito del mondo e dei suoi limiti, così da elevare alla santità proprio la sua vita quotidiana. Per non affidarsi però completamente all’agire naturale, e affinché si ricordi che in ogni cosa, alla fine, è necessario l’aiuto di D-O, egli deve staccarsi una volta ogni sette anni dal suo operare secondo natura, e affidarsi solamente ed unicamente a D-O. Dall’anno di shemità l’Ebreo deriva le forze che gli permettono di non essere sottomesso ai limiti della natura del mondo, e anzi, di governare su di esse e introdurvi santità.

La shemità e lo Shabàt
Questo principio lo si trova anche nella ciclicità dei sei giorni della settimana e dello Shabàt che li segue, ma per quel che riguarda l’anno di shemità vediamo che esso ha un vantaggio sullo Shabàt. Durante lo Shabàt, l’Ebreo si stacca del tutto dalle occupazioni mondane, dedicandosi completamente allo spirito; nell’anno di shemità, invece, egli vive la sua vita naturale, occupandosi di tutte le faccende mondane e quotidiane, affrontando però qui la sfida di introdurre proprio in questa sua vita naturale e quotidiana la fede in D-O e la santità che trascende la natura. Anche nella vita di tutti i giorni si può trovare questo tipo di ciclicità: durante tutta la giornata, l’Ebreo si occupa di faccende quotidiane e mondane, lavorando per il proprio sostentamento, mangiando, bevendo, dormendo, ecc. L’Ebreo deve tuttavia dedicare ogni giorno del tempo allo studio della Torà e alla preghiera, momenti nei quali egli si eleva al di sopra dei limiti del mondo e si collega a D-O. Così l’Ebreo vive la propria vita, in questa combinazione speciale di ‘naturale’ e ‘soprannaturale’. La stessa cosa riguarda anche l’esistenza del popolo d’Israele: esso esiste, apparentemente, in modo naturale, e tuttavia, allo stesso tempo, l’esistenza stessa dell’Ebreo è un grande miracolo Divino.

(Da Likutèi Sichòt, vol. 2, pag. 550)

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