Tre segni Pubblicato il 10 Novembre, 2024
Avraham Avìnu ha trasmesso il suo attributo di bontà a tutta la sua discendenza.
“Poiché istruisce i suoi figli e la sua casa dopo di lui a osservare la via di D-O, agendo con rettitudine e giustizia” (Bereshìt 18:19)
Nostro padre Avraham si distinse grandemente per il suo attributo di bontà. Questo attributo non restò solo un suo patrimonio spirituale, ma fu trasmesso alla sua discendenza, come è detto nella parashà Vayerà: “Poiché lo amo in quanto istruisce i suoi figli e la sua casa dopo di lui a osservare la via di D-O, agendo con rettitudine e giustizia”. Avraham Avìnu trasmise quindi il suo attributo di bontà a tutta la sua discendenza. L’attributo della beneficenza è uno dei tre segni che contraddistinguono il popolo d’Israele. Per questo, la Ghemarà dice: “Vi sono tre caratteristiche che contraddistinguono questo popolo: essi sono compassionevoli, pudici e compiono atti di bontà… e solo chi possiede queste tre caratteristiche è adatto ad aderire al nostro popolo” (Yevamòt 79,1).
Segni di cosa?
L’espressione ‘segni’ significa che queste caratteristiche sono segno di qualcos’altro, di una caratteristica fondamentale ed essenziale del popolo d’Israele. Qual’è la caratteristica indicata da questi segni? È la caratteristica dell’annullamento. L’Ebreo, nella profondità del suo essere, prova un senso di annullamento verso D-O, proprio come disse nostro padre Avraham: “Ed io sono (solo) polvere e cenere” (Bereshìt 18:27). Da questo stesso annullamento derivano le caratteristiche che sono i sui ‘segni’: il pudore, che è la natura dell’anima; la misericordia, che è un’emozione del cuore e il compiere atti di bontà, che è l’espressione pratica della bontà. Il pudore esprime l’annullamento in modo manifesto, e per questo esso è il primo segno. Esso porta l’Ebreo ad essere compassionevole, e l’attributo della misericordia lo spinge ad agire, compiendo buone azioni.
La bontà del ‘gentile’
È proprio qui che si cela l’unicità del popolo d’Israele in confronto alle altre nazioni. Anche gli altri popoli compiono buone azioni, ma ciò non deriva da un loro senso di annullamento, ma piuttosto dal contrario, dall’orgoglio. Così si esprimono i nostri Saggi. “Ogni atto di carità e di bontà compiuto dalle nazioni del mondo… non è fatto altro che per vantarsene” (Bava Batra 10, 2). La superbia, a volte, può suscitare anche sentimenti di compassione. Proprio per il fatto che la persona si sente superiore, vede l’altro come un essere inferiore, bisognoso di compassione, ed egli sente il piacere e la sensazione di grandezza che gli derivano dall’avere compassione e dal fare del bene.
Misericordia e pudore
La bontà dell’Ebreo deriva invece, come abbiamo detto, dalla sensazione di annullamento. Dato che egli non sente se stesso come una realtà indipendente, ma si annulla completamente davanti a D-O, egli prova il bisogno profondo di aiutare un’altro Ebreo. Da questo senso di annullamento, egli prova compassione per chiunque manchi di qualcosa. E in genere questo è l’ordine: dal pudore si arriva alla misericordia, e dalla misericordia alle azioni di bene. Esiste però anche un ordine opposto, secondo il quale proprio partendo dalla compassione l’Ebreo arriva al pudore. L’Ebreo sa che il fatto stesso che il suo amico sia povero e lui sia ricco, è per permettergli di compiere il precetto della carità. Se non fosse così, infatti, perché D-O, Che nutre e sostenta ogni creatura, avrebbe creato una condizione simile, in cui lui è ricco e il suo amico povero? Ciò è solo poiché D-O vuole che il sostentamento al suo amico gli arrivi proprio tramite lui, tramite i suoi atti di carità e di bontà. Questa consapevolezza provoca in lui un senso di grande pudore e vergogna, poiché di fatto, affinché egli possa meritare di fare della carità, il suo amico deve soffrire la povertà e l’indigenza! E così, proprio per la compassione per il suo amico povero, egli arriva a sentire un grande pudore e un profondo annullamento interiore.
(Da Likutèi Sichòt, vol. 30, pag. 61)