Un Rosh HaShanà del tutto speciale! Pubblicato il 27 Settembre, 2024
In un kibbuz tipico Israeliano, non religioso, nessuno penserebbe di organizzare un miniàn per pregare, nemmeno a Capodanno. Quella volta, però, sembrava dover andare diversamente, solo che a completare il numero del miniàn, mancava il decimo...
I due tmìmim non potevano darsi per vinti. La parte essenziale della preghiera di Rosh HaShanà non poteva essere fatta e tantomeno lo Shofàr poteva essere suonato, se non in presenza di un miniàn. “Vado a dire a quell’uomo di venire a pregare!” Chi lo sentì si limitò ad un alzata di spalle. Il tàmim si avviò verso l’edificio in cui erano situati gli uffici. Prima di entrare pregò: “HaShem, aiutami, Ti prego. Non posso pregare a Rosh HaShanà senza miniàn.” Come ogni tàmim del Rebbe, l’esperienza di avvicinare altri Ebrei non gli mancava, ma proprio per questo sapeva a cosa e a chi andava incontro. Il tremore della mano tradiva la sua emozione, quando bussò alla porta. “Avanti”, disse una voce da dentro. Il segretario del kibbùz, seduto alla sua scrivania ricoperta di incartamenti, lo guardò sorpreso. “Chàg samèach e buon anno!”, disse il giovane al segretario, con tono cordiale. Il segretario continuò a fissarlo freddamente. “Io ed un altro ragazzo siamo venuti dal centro del paese, per richiesta di un certo numero di abitanti di questo kibbùz, per celebrare Rosh haShanà e organizzare un miniàn per la preghiera ed il suono dello Shofàr. Abbiamo bisogno di dieci persone per fare miniàn. Stiamo per cominciare, ma siamo solo in nove.” Una breve interruzione per sondare le reazioni del segretario. “Ci manca solo uno per completare il miniàn. Venite, per favore, e siate il nostro decimo uomo. ‘Acquisterai il tuo mondo’ in questo grande e solenne Giorno del Giudizio.”
Un’aria di disdegno traspariva dagli occhi del segretario. “No!” fu la risposta. Il giovane prese un bel respiro. “Emozioni e fede non sono ciò, che potranno smuoverlo. Cercherò di spiegargli la cosa in modo logico e razionale, così forse capirà ed accetterà”, pensò fra sé e sé. Lo guardò negli occhi ed incominciò: “Siamo franchi. In questo kibbùz, voi siete il responsabile, che ha il compito di rispondere ai bisogni dei residenti. Io non vivo qui, ma mi sono disturbato a venire fin qui dal centro del paese, per passare due giorni ad aiutare i residenti di questo posto. Perché voi, nel vostro ruolo di segretario, non dovreste venire alla preghiera per solo due ore? Devo occuparmi io dei bisogni della vostra gente, mentre voi ne siete esentato?” Un minaccioso silenzio riempì l’ufficio. La mia domanda aveva fatto centro. Gesti nervosi accompagnavano l’evidente battaglia interiore del segretario. Alla fine si sentì un: “Okay! Vi raggiungo fra poco. Passo da casa a mettermi le scarpe. Non è rispettoso per me venire in ‘sinagoga’ scalzo.”
Sollevato, emozionato e felice il giovane tornò alla ‘sinagoga’. Lì, fu accolto da un unanime: “Hai visto? Te l’avevamo detto che non sarebbe venuto. Hai perso il tuo tempo.” Il tàmim se ne stette in silenzio, con un misterioso sorrisino sulle labbra. Poco dopo, il segretario fece il suo ingresso, esitante ed imbarazzato, senza sapere bene cosa fare. Gli altri incominciarono. Non c’è molto ancora da raccontare, se non che il segretario fu lì per tutto il tempo di Shacharìt, ebbe una alià alla Torà ed ascoltò il suono dello Shofàr per 100 volte (più 30 alla fine di Mussàf). A Mussàf egli era emozionato come un bambino, e di tanto in tanto si asciugava le lacrime con l’angolo di uno sbrindellato tallìt.
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