Vedere e credere Pubblicato il 8 Gennaio, 2024

L’esilio è uno stato innaturale, mentre la realtà vera rimane celata. Ognuno ha il proprio “Egitto” che lo limita e dal quale egli deve essere liberato. E il primo passo della redenzione è una rivelazione diretta del Divino.  

La prigione della mente
Quando la Torà nomina un luogo, questo nome viene a descrivere non solo una dislocazione geografica, ma anche uno stato mentale ed un’insieme di condizioni spirituali. In questo contesto, Mizràim, il termine ebraico per Egitto, funge per noi da paradigma. Esso ci insegna cosa sia l’esilio e rivela l’essenza stessa della prova spirituale che il nostro popolo si è trovato ad affrontare nel corso della storia. Mizràim deriva dal termine ebraico meizarìm, che ha il significato di “confini” o “limiti”. L’esistenza materiale confina e limita l’aperto manifestarsi del Divino nel mondo in generale, e quello della scintilla Divina nascosta nell’anima di ciascun Ebreo in particolare. Questo è l’esilio, uno stato innaturale, mentre la realtà vera – e cioè che il mondo è stato creato per essere una dimora per D-O, e che l’anima dell’uomo è una parte stessa di D-O – rimane celata. In una condizione di questo tipo, la persona viene assorbita nella routine della sua vita quotidiana. I valori spirituali, sempre che essa li prenda in considerazione, vengono interpretati secondo il proprio personale punto di vista. In questo contesto, il concetto di Mizràim –Egitto – diviene personale. Ognuno ha il proprio “Egitto” che lo limita e dal quale egli deve essere liberato. Per uno, le forze che impediscono l’espressione della propria natura Divina interiore possono essere costituite dai propri desideri fisici incontrollati, mentre per un altro dalle proprie riserve mentali. La natura del proprio “Egitto” personale può differire, ma l’obbligo di combattere, per trascendere questi limiti, è universale. Ed è questo il significato del nostro dovere di ricordare l’uscita dall’Egitto ogni giorno. Inoltre, l’esilio, per sua natura, tende a perpetuarsi. I nostri Saggi raccontano che neppure uno schiavo poteva scappare dall’Egitto. Allo stesso modo, ogni insieme di abitudini ed ordine di vita creano un’inerzia resistente ai cambiamenti. Per prendere a prestito un’espressione dei nostri Saggi: “Una persona in catene non può liberare se stessa”. Dato che ogni processo di pensiero della persona è oggi modellato dalla condizione ambientale dell’esilio, essa troverà difficile vedere al di là di questo ordine di cose.

Una fine all’esilio
Tuttavia, nonostante l’uomo non sia in grado di liberare se stesso, D-O non permette all’esilio di continuare all’infinito. Il primo passo della redenzione è una rivelazione diretta del Divino. Dato che la condizione fondamentale dell’esilio è l’ascondimento della presenza Divina, l’annullamento dell’esilio comporta una chiara rivelazione del Divino. Ciò scuoterà le persone dal loro assorbimento, aprendole ad una consapevolezza spirituale. Questo è il messaggio della parashà Vaerà. Vaerà significa “Ed Io Mi sono rivelato”. La radice di Vaerà viene dalla parola reiyà, che significa “vista”. Vaerà si riferisce a qualcosa che può essere visto direttamente. Questo tema viene ripreso lungo tutta la parashà, che descrive sette delle dieci piaghe – miracoli manifesti che hanno un duplice scopo, come la Torà stessa dice: “Io rivolgerò la Mia mano contro l’Egitto e farò uscire dalla terra dell’Egitto le Mie schiere… E l’Egitto verrà a conoscenza del fatto che Io sono l’Eterno.” Le piaghe resero l’intero mondo consapevole della presenza di D-O. Anche gli Egiziani, il cui governatore aveva dichiarato con superbia: “Io non conosco l’Eterno,” ne diventarono consapevoli e riconobbero: “Questo è il dito del Signore!” Poiché i miracoli furono visti manifestamente, essi trasformarono il pensiero della gente. Quando un’idea viene comunicata intellettualmente, essa richiede tempo per essere assimilata al punto da influenzare il comportamento della persona stessa. Quando invece una persona vede qualcosa con i propri occhi, ciò provoca immediatamente un cambiamento nel suo modo di pensare. Una volta che qualcuno ha visto un evento, non vi è modo di convincerlo che esso non ha avuto luogo.

Un’importante eredità
È comunque naturale per una persona domandare: “Quando mai io ho visto il Divino? Forse vi furono dei miracoli nel passato, ma che importanza hanno essi nel presente? La risposta può essere trovata nel commento di Rashi al verso dal quale la parashà prende il nome: “Ed Io mi sono manifestato ad Avraham, a Izchàk e a Yacov.” Rashi commenta: “Ai patriarchi.” Apparentemente, questa osservazione è superflua. Tutti noi sappiamo che Avraham, Izchak e Yacov furono i patriarchi del popolo Ebraico. Avendoli citati tutti per nome, non vi era necessità di menzionare il loro titolo. Rashi invece fa rilevare come le rivelazioni che essi ricevettero furono loro concesse non per le loro virtù personali, ma poiché essi erano i “patriarchi”, ed i loro conseguimenti sarebbero stati trasmessi come eredità ai loro discendenti. RivelandoSi ai nostri patriarchi, D-O fece sì che la consapevolezza della Sua esistenza divenisse un elemento fondamentale per la costituzione dei loro discendenti per tutti i tempi.

Prendere possesso dell’eredità
Anche se l’eredità lasciataci dai nostri patriarchi si trova dentro i nostri cuori, essa non è sempre nei nostri pensieri coscienti. Ognuno di noi deve faticare per interiorizzare la fede dei nostri patriarchi e renderla propria. Ciò non accade infatti da solo. Senza il nostro sforzo per unire fede e pensiero, noi possiamo creare una dicotomia che separa la fede dalla vita vera e propria. E di fatto questa dicotomia è un fatto del tutto comune. L’esigenza di risolvere questa scissione spiega la porzione precedente della Torà, la parashà Shemòt, che si conclude narrando come Moshè si fosse rivolto a D-O dicendo: “Perché hai recato danno a questo popolo?” La domanda di Moshè non riflette una mancanza di fede. Senza dubbio Moshè credeva; e così tutto il popolo, dato che gli Ebrei sono per natura “credenti, figli di credenti.” Moshè piuttosto realizzò come la sua responsabilità fosse quella di essere un pastore di fede, di nutrire cioè la fede del popolo, fino a che questa non sia in grado di influenzare i loro processi di pensiero. E questo fu il motivo della sua domanda.

Miracoli nella nostra vita
In risposta a Moshè, D-O compì i miracoli descritti in questa parashà. Lo sforzo di Moshè di rendere la fede un fattore insito nella vita di tutti i giorni suscitò la risposta di D-O. Concetti simili si applicano ad ogni generazione, poiché i miracoli non sono una cosa del passato. In ogni generazione, D-O dimostra il Suo grande amore per il Suo popolo, compiendo atti che trascendono l’ordine naturale. A volte, la persona alla quale capita il miracolo può non riconoscere quello che sta accadendo, mentre in altre occasioni i miracoli sono aperti, evidenti alla vista di tutti. Nel passato recente, di fatto, noi abbiamo assistito a grandi miracoli che D-O ha attuato per noi, fra i quali: la Guerra del Golfo, la caduta del Comunismo e le ondate di Ebrei che sono arrivati in massa nella Terra d’Israele. I nostri profeti hanno promesso: “Come ai giorni della tua uscita dalla terra d’Egitto, vi mostrerò prodigi.” Come i miracoli che D-O compì in Egitto vennero ad annunciare l’esodo, così possano anche i miracoli dei quali siamo stati testimoni – ed ai quali assisteremo nel futuro – preannunciare la Redenzione finale. E che ciò possa accadere nel futuro più immediato!

(Adattato da Likutèi Sichòt, vol. 16, pag. 52, ecc. ; vol. 31, pag. 25, ecc.; discorso di Shabàt parashà Vaerà, 5743 e 28 Nissàn, 5751)

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