Non è facile riconoscere il male Pubblicato il 21 Aprile, 2025
Il legame dell’Ebreo con D-O deve essere così forte, da non permettere neppure all’intelletto di farlo deviare dalla volontà di D-O.
“Distinguere fra l’impuro e il puro” (Vaikrà 11:15)
La parashà Sheminì apre con la descrizione dell’ottavo giorno dell’investitura, nel quale fu inaugurato l’altare e la gloria di D-O si posò per la prima volta nella Tenda del Convegno. Ed è proprio l’importanza di questo ottavo (Sheminì) giorno a dare il nome a tutta la parashà. È noto anche che l’otto è il numero che in particolare rispecchia la santità e rappresenta il sovrannaturale (al contrario del sette, che rappresenta l’ambito della creazione, della natura). “Ottavo” esprime il più alto livello di santità, rispetto al quale la realtà del male non ha semplicemente esistenza. Ma ecco che, proprio in questa parashà, noi incontriamo le leggi che si occupano della distinzione fra gli animali puri e quelli impuri e la necessità di “distinguere fra l’impuro e il puro”. Ma come è possibile che proprio quando ci troviamo ad un livello così eccezionale di santità ed elevazione, questo sia il posto per distinguere fra impurità e purezza?!
Sottili distinzioni
Riguardo a ciò, Rashi spiega che il verso citato si riferisce alla necessità di distinguere fra cose che sono molto sottili e non chiare e appariscenti. Ad esempio, nelle leggi che regolano la macellazione, l’halachà dice che il coltello deve recidere la maggior parte della trachea e dell’esofago; in questo campo può verificarsi un caso limite, nel quale si pone il dubbio se sia stata recisa la metà della trachea o la maggior parte. A questo si riferisce la Torà, quando dice che bisogna “distinguere fra l’impuro e il puro”. Quando la differenza è sottile come un capello, c’è bisogno di ricevere una forza particolare da D-O. Distinguere fra cose che non lasciano dubbio sul loro essere pure o impure, non è difficile. Quando si tratta invece di distinzioni molto sottili, che possono rendere qualcosa permesso o vietato, la persona non può riuscire con le sue sole forze, ed ha bisogno di un particolare aiuto dall’Alto.
Travestito da santità
Una delle vie adottate dall’istinto del male è quella di cammuffarsi di un manto di santità. Esso si presenta sotto un velo di argomentazioni erudite, tanto per dire, e cerca di tentare la persona a seguire la sua volontà. Questo metodo crea delle situazioni che non sempre la persona è in grado di affrontare. Quando l’uomo sa che si tratta di un peccato, gli è più facile respingerlo; ma quando il peccato è cammuffato da precetto egli potrà far fatica a “distinguere fra l’impuro e il puro”. Il consiglio migliore per salvarsi da questo tipo di tentazioni è arrivare allo “Sheminì” (l’ottavo). Fino a che l’uomo si pone nei limiti del mondo e nell’ambito dell’ordine naturale, l’istinto del male può farlo cadere nella sua rete. Quando invece l’uomo si innalza e si collega a ciò che è al di sopra della natura, a D-O Stesso, Cui il numero otto allude, allora egli è in grado di distinguere fra queste sottili tentazioni.
Una sensazione interiore
Il legame dell’Ebreo con D-O deve essere così forte, da non permettere neppure all’intelletto di farlo deviare dalla volontà di D-O. L’Ebreo deve arrivare ad avere una sensazione interiore profonda di qual è la volontà di D-O. Egli deve collegarsi all’aspetto di “Sheminì”, al di sopra della natura, e allora sarà in grado di riconoscere il male che si nasconde dietro una maschera di precetto, per così dire. Per questo, proprio nella parashà Sheminì si parla della distinzione “fra l’impuro e il puro”, poiché la capacità di distinguere anche nelle sottigliezze il male, la prendiamo da D-O Stesso, dal livello di “Sheminì”.
(Da Likutèi Sichòt, vol. 7, pag. 65)