L’occasione che D-O ci dà. Pubblicato il 21 Settembre, 2023

L'Ebreo riceve in regalo dieci giorni, in cui compiere e perfezionare il suo avvicinamento a D-O. Da questo servizio, verrà per tutti noi un buon e dolce anno.  

 

I dieci giorni di teshuvà

    Ogni Ebreo spera che, a Rosh HaShanà, il Santo, benedetto Egli sia, abbia concesso un anno buono e dolce a lui ed a tutta la sua famiglia.
Al bene, però, non c’è limite, e per questo D-O ha dato i giorni che passano fra Rosh HaShanà e Yom Kippùr (i dieci giorni di teshuvà). Attraverso il servizio specifico di questi giorni, si può fare in modo che, a Yom Kippùr, D-O conceda un anno ancora migliore.
Qual è il servizio richiesto in questi giorni? Teshuvà (pentimento, ritorno), tefillà (preghiera) e zedakà (carità).
Queste tre cose esistono anche presso i goìm, con le dovute differenze. Anche nella loro lingua vi sono termini corrispondenti a ‘teshuvà‘, ‘tefillà‘ e ‘zedakà‘. Nonostante ciò, la differenza fra teshuvàtefillà e zedakà presso gli Ebrei e presso i goìm è grande e sostanziale.
Teshuvà. Nel linguaggio dei goìm: pentimento. Chi ha compiuto una cattiva azione, se ne pente. Anche chi non ha fatto una buona azione, si pente ed inizia a comportarsi in modo diverso, in modo nuovo.
Per noi, invece, teshuvà è ritorno. L’Ebreo è essenzialmente buono, vuole fare sempre solo il bene. Accade, per diversi motivi, che un Ebreo compia un’azione non buona, ed allora egli fa teshuvà. Egli fa ritorno alla sua radice, alla sua origine. Egli torna al suo ‘io’ interiore.
Per questo la mizvà della teshuvà riguarda tutti, anche il giusto che non ha mai peccato. Egli vuole avvicinarsi ancora di più alla sua radice, alla sua origine. La teshuvà riguarda anche il malvagio che, se anche ha peccato, ha sempre la possibilità di ‘ritornare’. Egli, infatti, non deve fare altro, che ritornare alla sua origine.
Tefillà. Nel linguaggio dei goìm: richiesta. Si richiede a D-O di dare ciò che manca. Se non manca nulla o non si desidera qualcosa, non vi è nessun motivo per pregare.
Per noi, invece, la tefillà è collegamento a D-O. La tefillà riguarda ognuno, in ogni tempo. Ognuno ha un’anima che è collegata a D-O. L’anima si trova dentro il corpo ed è collegata a ciò che lo riguarda, come il cibo, le bevande e simili. Questi aspetti materiali indeboliscono ed allentano il legame dell’anima con D-O. Per questo motivo, in tempi determinati, l’Ebreo rivolge la sua preghiera a D-O. Così si ricompone e si rafforza il legame con il Santo, benedetto Egli sia. Anche colui al quale non manca nulla, ha bisogno di pregare, per rinnovare il legame della propria anima con D-O.
Zedakà. Nel linguaggio dei goìm: benevolenza. Al povero no spetta nulla, e non vi è alcun obbligo di dargli qualcosa. Chi dà, lo fa per il suo buon cuore, per la sua grande generosità.
Per noi, invece, la zedakà è un atto di giustizia (come la parola stessa indica: zedek – giustizia). È nostro obbligo dare zedakà. L’Ebreo sa che ciò che egli possiede non è suo, che tutto appartiene a D-O e che è D-O Stesso a comandargli di dare a coloro che non hanno.
Sono queste le tre cose – teshuvàtefillà e zedakà – per merito delle quali verremo ‘sigillati’ per un buon anno e per un dolce anno.

(Riassunto da ‘Likutèi Sichòt’ parte 2, pag. 409 – 411)  

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